Persecuzione e riscatto in J.Tintoretto

Autore: Ruggero Sicurelli

Persecuzione e riscatto in J.Tintoretto La persecuzione ed il riscatto sono due esperienze succedanee che stanno bene insieme.

La seconda, grazie ad una sorta di alchimia esistenziale, trasforma, per mezzo della mediazione della passione, il patimento della prima in esaltazione. In relazione alla storia di Tintoretto il termine persecuzione potrebbe suonare un po’ forte. Forse il vocabolo mortificazione potrebbe risultare più appropriato. Ma ciò che importa è sottolineare come le ferite psicologiche che ci vengono arrecate da terzi possano essere il sale della vita e possano contribuire a indirizzare le nostre energie psicologiche verso obiettivi per noi salutari.

La mortificazione ha un suo valore implicito nella misura in cui ci pone di fronte ad un problema da superare. Il successo o meno in relazione a questo sforzo riabilitativo può spingerci verso una vita degna d’esser vissuta o nelle pastoie del disturbo nevrotico. Nella biografia di ognuno di noi vi sono delle tracce, immaginative o reali, di questo processo che può essere o meno destinato ad alimentare la nostra fiducia di base. Simili esperienze sono servite a contribuire a determinare il successo di molte persone dotate di talenti ben spendibili nella nostra società.
Nel caso del nostro protagonista questo sembra particolarmente vero. Ciò premesso, parleremo qui di una riabilitazione pittorica, che vede il nostro artista riscattare se stesso e noi con lui. Infatti, nella genesi di un grande capolavoro si trovano quasi sempre le tracce di una riabilitazione collettiva. Nella contingenza, l’artista diventa una sorta di Cristo magico, per usare le parole di E. de Martino spese in riferimento ai guaritori tradizionali. Egli si prende sulle proprie spalle la croce della disperazione umana. Si getta nell’imbuto diabolico che porta nei luoghi infernali contenenti i frammenti delle miserie umane per riportarli alla luce e ricomporli all’insegna del riscatto.

Tramite la propria creatività, il mediatore artistico ricompone le minutaglie delle nostre miserie in un’opera capace di riportare la speranza di una riabilitazione collettiva. Ed ecco nell’occasione che prende forma il riscatto, il quale ha il compito di riportare la serenità nei nostri cuori e rendere l’artista simile a Dio. L’opera d’arte ben riuscita ci porta, per certi versi, a rimetterci in armonia con l’urgenza di ‘ri-creazione’ relativa al nostro esser-ci nel mondo che alberga in ognuno di noi e che garantisce un orizzonte di speranza al nostro agire. L’uomo vive, ma vivere creativamente è un’arte che pochi posseggono. Studiare le vicende esistenziali dei protagonisti della storia dell’arte può risultare quanto mai istruttivo e appassionante. L’urgenza conoscitiva fondamentale chiama in merito il frugare nelle storie di vita altrui. ‘Le storie di vita’ sono particolarmente amate dagli antropologi. Si tratta d’un metodo d’indagine assai remunerativo, in termini conoscitivi, che consente di imbastire degli appassionanti resoconti etnologici. Anche gli psicologi clinici amano molto le storie individuali, soprattutto quando pensano alla nota affermazione freudiana: “Il bambino è padre dell’uomo”. Come dire: la comprensione dei primi anni di vita è fondamentale per intendere la genesi dei disturbi di un determinato paziente.

Qui non ridisegneremo la storia di vita di J. Tintoretto, ma cercheremo di argomentare attorno al nucleo centrale di quello che chi scrive immagina possa essere stato il nucleo nevrotico 2 centrale del pittore veneziano, il complesso di inferiorità, dovuto alla sua minuta statura: superava di poco il metro e mezzo. Il disturbo in discussione è stato studiato soprattutto da A. Adler, uno studioso che con C.G. Jung e S. Freud diede lustro alla prima psicanalisi. A suo avviso, la striatura nevrotica in discussione ha un carattere fissista ed ha il potere di penalizzare l’autorealizzazione. In suo correlato più puntuale: un senso di sconforto legato a fantasie persecutorie.

Egli intuì però che c’era anche una possibilità rigenerativa: spinto dal desiderio del riscatto, il disagiato può convogliare le sue energie verso mete appropriate in termini di realizzazione personale. A suo avviso, molte celebri realizzazioni umane sono sorte da simili tristi vissuti. Tali esiti compensatori sembra si siano concretizzati in alcuni celebrati capolavori creati da artisti che molto hanno penato per delle vicende esistenziali personali, soprattutto in relazione al complesso di inferiorità. Dunque, alla base del loro successo è riscontrabile una reazione riabilitativa rispetto ad un’angustia intima generata da un’insidia nevrotica legata alla bassa considerazione di sé e alla convergente presunta percezione negativa da parte degli altri. In senso metaforico, in questa ‘cornice’, il ‘dipinto’ del Tintoretto mi pare ci stia bene. I sussulti pittorici degli artisti penalizzati dal sentimento di inferiorità sono ben evidenti nelle soluzioni pittoriche dove gli stessi si rappresentano.

Nel caso del Tintoretto mi piace segnalare l’enorme dipinto rappresentante la scena biblica dell’”adorazione del vitello d’oro”. L’opera è rintracciabile nella splendida chiesa veneziana conosciuta con il nome di “Madonna dell’orto” (un tempo chiesa di San Cristoforo), che risulta una delle tele più imponenti della storia dell’arte. Le sue misure: m.14.50 per m.5.90. In termini metrici, ci si trova di fronte ad un grande quadro dipinto da un piccolo uomo. Che un pittore, per lo più senza volerlo, potesse raccontarsi su una tela era una evidenza che Leonardo da Vinci considerava certa. Al genio toscano era ben noto il meccanismo della proiezione, tant’è che scrisse sul concetto di ‘provocatore ottico’ portando nell’occasione un contributo inestimabile alla psicologia dell’arte. Il riferimento è ad un’immagine indistinta capace di stimolare nell’osservatore il desiderio di una ristrutturazione percettiva avente il carattere della familiarità. Un esempio: riconoscere in una macchia ristagnante su un muro i contorni di un animale. A Leonardo non sfuggì nemmeno il fatto che un artista con un difetto fisico, tendesse proiettarlo nei suoi dipinti come fosse una sorta di sua firma, di traccia di riconoscimento. Ciò per dire che uno strabico tendeva a dipingere volti strabici ed una persona con il volto minuto tendeva a dipingere volti minuti. Ci si trova, in sintesi, di fronte ad una sorta di effetto specchio. La fedeltà della figura riflessa non era però a suo avviso meccanica.

Essa risultava comunque assai facilmente riscontrabile nelle produzioni grafiche e pittoriche di numerosi artisti. Nella proiezione non si tende ad avere solo una duplicazione fedele alla realtà, ma anche un’esaltazione del tratto critico che può sfociare verso una satira autoironica. Il più delle volte però intervengono delle correzioni che nascono sotto il segno dell’autoesaltazione. Nel dipinto di Tintoretto di cui sopra, Jacopo si presenta a torso nudo come fosse un atleta pieno di energia e di statura ragguardevole. Al centro in basso della tela abbiamo modo di ammirare un Tintoretto robusto intento, con altri protagonisti, a dar mostra di sé nel mentre trasporta la base sulla quale è posto il ‘vitello 3 d’oro’. La sua figura è imponente. L’esibizione del torso nudo e dei muscoli pare quella di un gladiatore. Vicino a lui, egualmente mezzo nudo, troviamo il suo amato Michelangelo. Per una sorta di magia di contatto (per dirla con J. Frazer), Jacopo pare destinato ad assorbire le qualità del grande toscano, del quale modo di dipingere si riscontrano numerose citazioni nei lavori del nostro autore. Come dire: “non ti ho rubato i talenti, ma mi sono servito del tuo modo di disegnare e scolpire pittoricamente le figure”.

Abbiamo segnalato il fatto che Tintoretto amasse confrontarsi con le grandi dimensioni, quando, tenendo conto del rispecchiamento realistico, ci si poteva aspettare da lui piuttosto delle… miniature. Ma anche sulle dimensioni della sua figura ci sarebbe da argomentare non poco. Qui è sufficiente ricordare che egli era semplicemente esagerato: si rappresentava, come anticipato, grande e muscoloso quando non lo era affatto. Il buon Adler, se fosse venuto a Cannaregio, avrebbe scritto su di lui un saggio sostanzioso. A proposito di esagerazioni, Jacopo scelse come modella e amante una donna assai più alta e corpulenta di lui. Non è tutto. Forse A. Einstein aveva ragione, quando diceva che “Dio non gioca a dadi”.

Con Tintoretto pare però che i dadi siano stati lanciati e male, costringendolo a portare da giovane un cognome, Robusti, che si prestava ad essere ridicolizzato dagli amici. Ciò tenuto conto della sua statura. Infatti, il termine ‘robusto’ tende a far pensare ad un uomo alto, forzuto e ben piantato. Robusti Jacopo della pianta non aveva nulla. Piuttosto sembrava un fragile ramoscello. Che dire? E’ difficile pensare che il nostro piccolo sfortunato non abbia sofferto le pungenti derisioni generate dal rapporto tra il suo nome e la sua altezza. Tiziano e Tintoretto: due artisti straordinari che vivono nella stessa città, che si contendono i lavori destinate alle splendide chiese veneziane, che seducono gli stessi committenti, che entrano in competizione per guadagnarsi un posto centrale nella storia dell’arte potevano tessere una gradevole e costruttiva relazione fra loro? Assolutamente no! I tratti caratteriali e un’invidia reciproca affatto trascurabile impediva loro di realizzare questa opportunità.

Da piccolo, Jacopo venne mandato dal padre nella bottega del più grande artista che girovagava per le calli veneziane di allora: Tiziano. Il sodalizio tra i due durò pochi mesi. Il maestro s’accorse ben presto che era meglio allontanare quel giovane intelligente e curioso, quel ragazzino dal forte carattere e dal ricco talento artistico. Nella sua mente, dovette ben presto imporsi l’idea che il giovane intruso potesse rubargli i segreti più intimi del suo dipingere. Non valeva la pena allevarsi una serpe in casa, un quasi certo competitore futuro. Perciò allontanò presto il giovane discepolo, che egli definì “un granel de pevere” (un granello di pepe). Nella vulgata veneziana: “picoeo e impestà”. La dinamica che regola il processo chiamante in causa la persecuzione ed il riscatto prevede la presenza di almeno due personaggi: il persecutore ed il perseguitato. Semplificando, siamo portati a pensare ad una vittima, indifesa e poco amata dalla sorte, e ad un suo tiranno da lei considerato cattivo e odioso. La realtà intima è più complessa. Come dimostrato con eleganza da Freud, nel suo ambito regna l’ambivalenza emotiva: a livello inconscio, si ama e di odia insieme la stessa persona. Il piccolo Jacopo, mentre preparava i colori per il maestro, non poteva non provare in cuor suo una smoderata ammirazione e una velenosa invidia per il più amato pittore dai veneziani: Tiziano Vecellio. Questa ambivalenza era destinata ad animare in lui un groviglio di sentimenti 4 contradditori che perdurarono nel tempo. Da adulto Tintoretto stimò molto l’antico insegnante e fu ripagato con la stessa moneta.

Ecco l’incrocio di due benevoli reciproci giudizi: Jacopo, pur delirando per il segno ed il disegno di Michelangelo, stravedeva per come il Tiziano usava il colore. Per contro, il Tiziano invidiava la rapidità del gesto pittorico del suo ex allievo e la sua vibrante resa pittorica. Di certo, Tintoretto sarebbe diventato meno apprezzato e famoso senza il pungolo del suo avversario fatale. Ritornando al bambino di bottega, una sorta di granello di pepe piccolo e dal sapore poco gradevole ed irritante Jacopo doveva esserlo davvero. Anticonformista e irritabile, probabilmente in nostro protagonista non riusciva e risparmiare degli sguardi irosi e delle aspre sceneggiate esibite nei confronti di quanti osavano ferire il suo amor proprio. Già, l’amor proprio. Per un ragazzino che faticava a crescere in statura, l’insidia della ferita narcisistica doveva essere sempre presente e temuta.

L’evento più indesiderato: quello della derisione. E qui si impone una precisazione. Il riscatto parte da un sussulto narcisistico. A differenza di quanto si è portati a credere il narcisismo non è di per sé patologico. Infatti, la spinta ad esso correlata, soprattutto nell’infanzia, può essere posta al servizio del processo di maturazione psicologica. I danni vengono dall’eccesso, il quale si configura quando il narcisismo si dimostra fine a se stesso, si tradisce nei termini di un mero rispecchiamento esuberante e autocelebrativo. Il dipinto di Caravaggio sul tema la dice lunga in merito. Anche i più penalizzati dal destino hanno la possibilità di arginare la malasorte e di proteggersi dalle avversità. Come? Facendo ricorso alla fantasia ed immaginando dei luoghi della presenza dove sia possibile giganteggiare. Ben presto Jacopo s’accorse che poteva piegare la realtà a suo favore e diventare assai grande, un gigante in uno specifico dominio. Nel suo caso si trattò dell’universo pittorico, dove poteva dar voce una profezia destinata ad autoadempiersi: piccolo, ma grande. Ancora un ultimo riferimento al bisogno di grandezza di Tintoretto. A quale simbolo di grandezza più efficace Jacopo poteva ricorrere se non a quella sua scultura – emblema posta fronte casa a mo’ di presenza protettrice e rassicurante? Si tratta di un Ercole, di un minaccioso gigante con tanto di clava al quale è stato assegnato il compito di proteggere i familiari e a far ricordare a tutti la voglia di Tintoretto di primeggiare. I suoi dipinti, da un punto di vista psicologico, sono l’esito per lo più di urgenze compensatorie e rigenerative. Laddove non riusciva ad imporsi con le sue abilità artistiche Tintoretto usava la furbizia e la determinazione, doti queste di cui mai è stato deficitario.

Per chiarire meglio questo aspetto possiamo ritornare alla logica del riscatto, il quale può essere inteso come l’esito positivo di una tensione emancipativa verso il futuro. E in relazione al futuro lo sguardo di J.Tintoretto guardava lontano, verso l’eternità. Nel suo ‘allora progettuale’, Jacopo si dava da fare per convincere i frati colti e amanti dell’arte, appartenenti all’ordine del ‘celestini’, che erano presenti nella sua parrocchia. Il suo obiettivo era quello di tappezzare con le sue tele, a perenne memoria, le pareti della sua chiesa: quella della “Madonna dell’orto”. Per far ciò, ha scelto di sbaragliare la concorrenza con uno stratagemma efficace: lavorare gratis. Ed è proprio questa strategia che ci fa capire quanto in Tintoretto la voglia di riscatto e di autoaffermazione fosse elevata. I suoi meravigliosi 5 dipinti, a mio avviso, conservano vive testimonianze di ciò e si esprimono come un pungolo cromaticamente saturo per quanti abbiano in loro la voglia di riscattarsi agli occhi degli altri. Tintoretto è stato qui un pretesto che mi ha consentito di dimostrare come la psicologia dell’arte possa risultare utile per un esplicativo approccio pluridisciplinare alla lettura di un’opera d’arte. Nell’occasione, ho avuto il pungolo giusto per imbastire un seminario di arteterapia che si svolgesse sotto il segno del grande pittore veneziano. Il termine – chiave utilizzato: “riscatto”.

Sia sul piano individuale che su quello collettivo, il riscatto conserva in sé una storia da ricordare e da raccontare. I miti nascono da racconti esuberanti che si autoalimentano e autoconfermano. Avviene così che arricchimenti ed autogiustificazioni si concretizzino nel flusso del dire quotidiano sino a diventare dei veri e propri miti capaci di riverberare il senso della verità assoluta. Ciò è quanto succede nelle società etnologiche, ma, a ben guardare, anche da noi. Ogni mito prende l’avvio da un eroe culturale che riscatta se stesso ed il proprio clan di appartenenza dalle insidie le più laceranti e pervasive. Il modo in cui questo riscatto avviene tende a tradursi in orientamenti pragmatici ed in tabù culturali. Questi ultimi informano su ciò che non si deve fare se si vuole evitare di ricadere nel caos, di ri-scivolare nel baratro della disperazione. Nel mito collettivo il riscatto è soprattutto da raccontare: ogni generazione ha l’obbligo pedagogico di ricordare e, soprattutto, di tramandare a quella che segue ciò che è avvenuto e ciò che si deve fare nell’attualità ed in futuro. Nel mito personale, che si verifica all’insegna di un palcoscenico intimo nel quale l’insidiato e l’eroe culturale sono la stesa persona che gioca ruoli diversi, si assiste per lo più ad un riscatto da ricordare, ma raramente da raccontare. Ciò, in genere, per una sorta di pudore espressivo del protagonista e per il senso di irrilevanza che tende a suggerire la narrazione al pubblico.

Ed è qui che l’intervento arte terapeutico trova una piena legittimazione, poiché consente ai vissuti soggettivi di farsi racconto da ascoltare e da trattare con partecipazione. Il tutto all’insegna di una tensione psicologica che può defluire verso la meta di un miglior benessere personale. Questo, in una cornice nella quale un ‘capolavoro’ pittorico viene registrato come tale nella storia dell’arte nella misura in cui entra nella nostra intimità come una buona soluzione artistica a quelli che sono e sono stati e sono i nostri bisogni espressivi e, prioritariamente, quelli dell’artista. Tutto ciò grazie ad un intreccio di soluzioni aventi alla base i meccanismi psicologici dell’identificazione e della proiezione. Ebbene, questo processo scaturirebbe da quelli che possono essere definiti gli “universali conflittuali” della condizione umana. Fra questi va registrato quel vero e proprio coagulo di ferite narcisistiche che è ‘complesso di inferiorità’. Questo, seppur in maniera diversa, insidia l’esistenza di ognuno di noi. Alla sua base, si trovano delle svalutazioni del nostro Sé che possono avere un deflusso diverso e dei riscontri esistenziali dissimili. Ciò nella misura in cui l’esuberanza narcisistica viene problematizzata dallo sguardo critico e dal comportamento reattivo altrui, costringendo il penalizzato a ravvedersi e a porsi degli scopi socialmente apprezzabili, ovvero può concretizzarsi in veri e propri disturbi della personalità che arrivano a palesare delle striature psicotiche. Le vicende psicologiche qui descritte possono insidiare l’esistenza di ognuno di noi in modo diverso e spingerci a mettere in atto differenti formule di riscatto esistenziale.

Per concretizzarlo l’artista ci mette del suo, in termini di urgenza espressiva, di talenti, di creatività e… di rischio di fronte al proprio pubblico. Dal suo lavoro, noi spettatori, possiamo godere di una dissimile 6 ‘efficacia riflessa’, la quale ci consente di godere dei benefici diversamente salutari. Molto dipende dalla nostra sensibilità artistica, dal grado di empatia che l’artista suscita in noi e dalla nostra attitudine ad assumerci il rischio consistente nel mettere in discussione le nostre certezze. Il tutto sfidando la nostra pigrizia mentale ed evitando di limitare lo sguardo alla vitrea bellezza di un determinato dipinto. Gli universali psicologici si prestano ad essere trasformati in dati culturali forti, pur tradendo delle configurazioni dissimili in realtà storiche e socioeconomiche diverse. Ciò per dire che i meccanismi individuali e colletti entrano nel gioco della percezione del capolavoro artistico. Qui proviamo far scivolare i rilievi di cui sopra dal piano personale, storicamente dato, a quello universale storicamente indeterminato. Proveremo farlo a partire ancora una volta dalla dualità persecuzione – riscatto. L’uomo di nadeli (Jannesburg), questo ramipiteco lontano da noi ben tre milioni di anni, dimostrava di essere in bilico tra la vita arborea e quella terrena. La sua caratteristica, che prelude ad un pensare posto al servizio del riscatto, è quella di prestare attenzione ai defunti arrivando a dare loro un conclusivo e rassicurante ricovero collettivo. Portando i propri morti in una grotta egli tradisce il suo primo slancio verso l’idea di Dio, dando nell’occasione accoglienza e direzione al patimento. Con lui non si trovano più scheletri abbandonati nei luoghi i più di versi, ma defunti posti in un cimitero protetto, in un luogo ‘sacro’. Nel momento in cui i nostri antenati hanno iniziato a non trascurare i loro cari, a non lasciarli lì dove morivano, hanno incominciato a fare qualcosa per rimediare al disagio psicologico che l’abbandono della persona cara iniziava a causare in loro. Da qui il bisogno di ricercare un nuovo beneficio: quello appunto della consolazione. E, nella testa di nadeli, è germogliata questa idea quando si è affacciato in lui il pensiero di un oltre, di una non definitiva scomparsa dal mondo. Da qui è nata l’urgenza di accompagnare nel migliore dei modi il defunto in un altrove eterno non altrimenti definibile.

Ciò attraverso una procedura rituale, tramite un agire finalizzato a coagulare le passioni umane (con – passione) e a dare congiuntamente direzione alla sofferenza legata alla perdita (con – patimento). Siamo ancora nella logica della gestione della grande ferita rinviante alla consapevolezza di un perire senza rimedio. A partire da un certo grado di sviluppo, questo pensiero diventa impossibile da accettare. Da qui uno sguardo ad un oltre possibile seppur incomprensibile ad un riflettere ideologicamente pregnante attorno all’idea di eternità. Da questo momento, inizia a germogliare nell’uomo un nuovo desiderio di riscatto e con esso lo strategico bisogno riabilitativo della consolazione. Questa inedita urgenza prelude alla nascita di un primo sussulto religioso chiamato a gareggiare con il sentimento che ci ha dato i natali: l’angoscia di morte. Possiamo infatti dire che la storia dell’uomo inizia con la sua presa di coscienza relativa ad il suo esser-ci provvisoriamente nel mondo. Con nadeli nasce l’esperienza del lutto e la fede nell’esistenza di un altrove eterno nel quale le vicende umane conoscono una ri-attualizzazione governata da spiriti che possono essere influenzati con le pratiche le più diverse: si va dalla preghiera ai riti sacrificali. Se nadeli vive immerso nella sofferenza e nel dubbio quando perde un proprio caro, Neanderthal si riabilita e pone definitivamente la prima pietra per un culto dei morti capace di dare ai vivi un orizzonte certo di riscatto in un altrove non ancora ben definitivo, ma, se si guarda 7 al riguardo garantito al morto e al complesso cerimoniale legato al suo interramento, assai prossimo alla dimora eterna.

Questa doveva essere gradevole, se la scelta dei nativi è stata quella di affidarsi ad un rito propiziatorio consistente nel porre dei fiori sulla tomba del congiunto. Questo è successo circa centomila anni fa. Ed in questo periodo doveva farsi largo l’idea di un ben morire garantito da una vita terrena moralmente apprezzabile. Circa cinquantamila anni dopo Neanderthal sparisce in un buco nero della storia. Molti studiosi difendono l’idea che egli sia scomparso per inedia. Aveva tutto a disposizione: dal bue muschiato alla frutta. Non doveva faticare troppo per appropriarsi di ciò che desiderava: vesti incluse. Da qui la riduzione degli stimoli avversativi e la concomitante voglia di lottare per avere ragione delle avversità. Se così stanno le cose, possiamo ragionevolmente affermare che il nostro protagonista si sia dissolto nel nulla per mancanza di un adeguato desiderio di riscatto. Con l’arrivo di una fatale glaciazione, non più allenato a combattere contro gli ostacoli posti da madre natura, il nostro protagonista si sarebbe lasciato estinguere.

Da allora l’dea del riscatto religiosamente mediata ha fatto il percorso che conosciamo. Il riscatto ha senso se nei nostri cuori alberga una visione di fondo, un desiderio di riabilitazione credibile. E qui interviene il dono della fede, almeno per i credenti. Da alcuni decenni il troppo avere, che ha dato sostanza al comportamento inebetito dell’uomo moderno, pare abbia aperto le porte ad un mondo disincantato regolato da quella nuova religione, svuotata dalla spinta emancipatrice, che è l’ateismo. Da nadeli ad oggi i bisogni sono cambiati: dall’appetito alimentare siamo arrivati alla fame di conoscenza. Freud ha giocato a fare l’evoluzionista: prima la magia, poi la religione ed infine, quale approdo definitivo, la scienza. Egli si sbagliava su una simile linearità senza cedimenti. Si pensi al ritorno del magico nell’odierna società occidentale. E forse anche sul destino universale e definitivo della risposta scientifica data ai problemi di conoscenza umana. L’ateismo, nella succedaneità freudiana, aveva una logica in sé: distraeva dal pensiero magico-religioso.

Rimane aperta una domanda: siamo così certi che il futuro sarà affrancato definitivamente dal credito dato alla fede religiosa? La formula “Dio è morto” difficilmente arriverà mai a calamitare un credito assoluto. E l’opera d’arte in tutto ciò cosa centra? Il credito che viene attribuito ad un prodotto artistico degno di questo nome è il riflesso di una “ri-creazione” attraverso la quale chi ha modo di riconoscere ed ammirare un’opera d’arte la percepisce e la vive quale testimonianza di un riscatto universale. Il tutto si verifica sulle ceneri di un combattimento tra il disordine personale ed il riscatto collettivo. Siamo nella logica complementarista cara a G. Devereux: nel capolavoro artistico si solubilizzano sia le ferite narcisistiche individuali che quelle collettive che si sfumano nell’orizzonte culturale. Il tutto prende forma in un riscatto artistcamente sostanziato capace di defluire verso l’eternità.

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