Osservazioni poco cliniche di una psicologa clinica

Autore: Chiara Delia

Osservazioni poco cliniche di una psicologa clinica E un giorno credi questa guerra finirà
ritornerà la pace ed il burro abbonderà
e andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà

(San Lorenzo - F. De Gregori)

Quella che voglio raccontarvi è la storia di un animaletto piccolissimo tanto da non poter essere visto se non al microscopio, dall’aspetto carino, assomiglia ad una pallina da mettere sull’albero di Natale. Questa, apparentemente insignificante, “bestiolina” sta mettendo in ginocchio il mondo intero: lo temono persino i banchieri, i più potenti politici del mondo, grandi finanzieri e i magnati dell’industria. Colpisce indifferentemente il cosiddetto uomo della strada, il grande campione di calcio e perfino i divi di Hollywood! Fa tremare anziani e giovani, chi può fugge, cercando di mettersi in salvo.

Va detto che questo animaletto è riuscito laddove anche i più grandi statisti hanno fallito: è riuscito a ridurre l’inquinamento, la delinquenza, l’attacco degli hater, il cyberbullismo, perfino lo spaccio! Insomma da qualunque parte la si guardi sta riuscendo a cambiare irrimediabilmente la vita del mondo intero.

Stiamo già adesso assistendo ad un cambiamento epocale delle nostre vite, totalmente stravolte nella loro quotidianità e, anche per questo, con più o meno rilevanti contraccolpi emotivi.

Ci scopriamo estremamente fragili e vulnerabili; la medicina si mostra in tutta la sua fallibilità. Ma è proprio in questo momento che scopriamo che medici e infermieri – esseri umani in camice bianco – sono loro, il nostro riferimento e il nostro aiuto. E’ l’uomo che aiuta l’uomo.
Ci sentiamo allo stesso tempo esposti al contagio, ma anche possibili untori; io sono la vittima o il pericolo per gli altri? Impariamo che possiamo essere, in tutte le circostanze della vita, entrambe le cose, a tenere a mente che dobbiamo proteggere noi stessi, ma qualche volta dobbiamo fare attenzione agli altri, a proteggerli da ferite che involontariamente potremmo inferire.

Abbiamo imparato a tenere “almeno un metro di distanza”, e mai, come in questo momento ci chiediamo qual è per noi la “giusta” distanza? Scopriamo talvolta le nostre case troppo strette per contenere tutta la famiglia, ma scopriamo anche che quelle meteore che talvolta vedevamo attraversare velocemente il salotto di casa erano quei figli che ora ci guardano, ci parlano e si confrontano con noi.

È come se dal 9 marzo le nostre vite avessero subìto una brusca frenata, ma in fondo non si sono mai fermate davvero. È allora cos’era quell’incessante correre di prima? E di cosa ho paura adesso? È la paura di ammalarmi, la paura del vuoto, della noia che mi portano a correre come un criceto in gabbia? Forse possiamo finalmente, semplicemente rallentare, per scoprirci più vivi e più vicini.

Ed infine, i nostri balconi si stanno riempiendo di scritte “tutto andrà bene”. In fondo abbiamo imparato proprio in questo momento di forzata solitudine a rassicurarci gli uni con gli altri, con la frase che la mamma dice al bambino per proteggerlo dalle sue paure…dalla nostra paura della malattia e di ciò che non controlliamo.

Anche il lavoro è cambiato: non si condividono più gli spazi con i colleghi, non si incontrano più fisicamente i pazienti. La distanza è un ostacolo da superare, la tecnologia ci aiuta, ma non è la stessa cosa. Anche le regole del setting sono stravolte, si entra rispettivamente l’uno nella casa dell’altro, viene a mancare il limite e il contenimento dati dal contesto conosciuto. Ci si muove, trovo, tra la paura di potersi perdere nell’eccessiva distanza e la paura di condividere una eccessiva intimità: è nell’oscillazione tra queste due paure che alla fine sorge l’incontro tra la mente del terapeuta e quella del suo paziente. Ma in fondo non è così sempre, anche senza coronavirus?

Ebbene in conclusione, di cosa ho paura io? Ho paura che quando questo finirà il personale sanitario non sarà più un angelo custode, ma il protagonista della malasanità, che torneremo a vedere il pericolo solo nell’altro e possibilmente nello sconosciuto e nel diverso, che i balconi torneranno ad essere quegli spazi da proteggere dagli sguardi indiscreti dei “vicini”, che torneremo a sentirci i padroni del mondo e governatori della Natura, che una stretta di mano tornerà ad essere un gesto rituale e se ne perderà il suo reale valore simbolico, che ci sentiremo di nuovo invincibili e per questo meno uomini e meno umani.
 

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