La sindrome di Ulisse: quando vivere all’estero è dura

Autore: Valeria Lussiana

La sindrome di Ulisse: quando vivere all’estero è duraIn totale, in questo istante un miliardo di abitanti del pianeta vive l’esperienza dell’emigrazione.
 Un terzo dell’umanità si sente psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto,
attirato o rassegnato a doversi rifare una vita “altrove”.(Federico Ramponi, 2012)
 
L’Associazione Eco propone ormai da 7 anni il Progetto “Psicoterapia low cost” con lo scopo di dare a tutti coloro che ne fanno richiesta, in difficoltà economica o meno, la possibilità di effettuare una psicoterapia di qualità a costi contenuti. L’iniziativa ha avuto molto successo diffondendosi soprattutto tra gli studenti e i giovani lavoratori di Torino e Provincia.

Negli ultimi due anni però ci siamo accorti che sono aumentate le richieste da parte di pazienti di origini estere nonché quelle di coloro che si sono spostati dall’Italia per motivi di studio e lavoro.

In particolare abbiamo lavorato, in studio o via Skype, con persone provenienti da o residenti in diverse parti del mondo: Marocco, Iran, Gran Bretagna, Madagascar, Turchia, Romania, Perù, Germania, Austria, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna, USA, Cina.

Il lavoro con questa fascia di persone ci ha permesso di approfondire i vissuti di chi si trasferisce in una terra straniera e sono emerse alcune criticità che accomunano coloro che si trovano ad affrontare un così grosso cambiamento.

La decisione di partire può essere dettata dal desiderio di fare nuove esperienze, di conoscere nuove persone, di imparare una lingua e di immergersi in un contesto diverso dal proprio anche per mettersi alla prova; in altri casi invece può non esser frutto di una libera scelta ma della necessità di trovare lavoro o di venire incontro alle esigenze della propria azienda, o ancora, alle esigenze di un partner costretto a trasferirsi.

Qualunque sia il motivo alla base, partire è un’esperienza psicologica complessa per tutti. Essa comporta una fase di crisi fisiologica, perché costringe ad una riorganizzazione radicale della propria vita che influisce, almeno momentaneamente, sul proprio senso di identità. Infatti, i legami con le persone significative, le proprie cose, la propria lingua, il clima e le abitudini sono perduti e inizialmente può prendere il sopravvento un forte sentimento di estraneità verso il nuovo ambiente di vita.

Questa situazione va sotto il nome di Sindrome di Ulisse, o sindrome dell’emigrante, e può portare ad idealizzare il proprio paese di origine, nel quale tutto era bello ed idilliaco e a svalutare il paese di arrivo, come fonte di disagio o sofferenza. Allo stesso modo, si può verificare anche l’esatto opposto, elevando il paese ospitante come terra promessa per la risoluzione di tutti i propri problemi e denigrando il proprio paese come luogo dal quale è stato necessario fuggire, causa di tutti i mali.

Entrambi questi comportamenti, se portati all’estremo, possono essere considerati dei disturbi emotivi, in cui l’esaltazione o la svalutazione eccessiva di un posto o dell’altro sono il risultato di una distorsione della realtà sull’onda dell’emotività.

Questo perché ritrovarsi in un terreno inesplorato può causare un certo disequilibrio emotivo e portare a sensazioni di disagio, se non di paura, nel dover affrontare una situazione di cambiamento con il conseguente timore del fallimento o della solitudine o, più semplicemente, sentimenti di ansia per la rottura degli equilibri precedenti e le incognite che verranno.

Ecco che i punti di tensione che possono insorgere solitamente ruotano intorno a questi 4 cardini:

La solitudine: all’inizio può non essere facile trovarsi lontano dai propri affetti e circondati da persone, anche piacevoli e simpatiche, ma con le quali si condivide ancora poco. Costruire rapporti solidi e profondi richiede tempo e si può provare nostalgia per le proprie amicizie più strette e faticare per l’assenza di momenti di condivisione e sfogo.

La paura: questa emozione, normale in ogni fase di passaggio, può riguardare il timore del cambiamento, il timore di non farcela, di non riuscire ad adattarsi, di non riuscire ad inserirsi oppure di fallire e di deludere. Quando le cose non vanno come sperato o ci si trova ad affrontare più ostacoli del previsto possono affiorare vissuti di depressione, di ansia, di insicurezza e di insoddisfazione verso se stessi.

L’estraneità e lo spaesamento: ricominciare la propria vita in un altro paese mette in discussione tutti i propri punti di riferimento. Le sicurezze e le abitudini che si avevano prima di partire si scontrano con un nuovo contesto, una nuova casa, nuovi ritmi ed usanze, cibi diversi, ma anche nuove convinzioni, nuove passioni o obiettivi. Cambiare è certamente positivo sotto il profilo della crescita personale ma comporta una sorta di sradicamento dal proprio passato quando però il background di destinazione è ancora in costruzione.
In questa fase ci si può sentire divisi a metà tra due mondi: lasciarsi contaminare dalla cultura “adottiva” è necessario affinché l’inserimento vada a buon fine ma è allo stesso tempo importante non rinunciare del tutto alla propria! L’identità, infatti, è una struttura che si plasma continuamente in funzione delle nostre interazioni, dei rapporti che instauriamo con gli altri e della nostra cultura di appartenenza. Mantenere la capacità di percepirsi costanti pur in questo continuo fluttuare delle situazioni e degli incontri che si vivono può non essere semplice e causare sentimenti di estraneità.

La gestione delle relazioni: solitamente, la scelta di trasferirsi riguarda la persona che decide o si trova costretta a fare il salto ed è volta esclusivamente al bene della stessa. I famigliari, i compagni o gli amici, per quanto possano dissimulare la tristezza e cercare di essere contenti e supportivi, subiranno un allontanamento che può non essere facilissimo da affrontare. Questa consapevolezza può determinare sentimenti di colpa in chi parte o preoccupazione verso chi resta.
Inoltre, benché oggi spostarsi sia diventato più semplice e più rapido, non sarà comunque possibile rientrare ogni volta che lo si desidera. Fare delle scelte, quindi, diventa necessario ma anche molto difficile: tornare per il matrimonio della migliore amica o per la festa dei 90 anni del nonno?
Inoltre, benché desiderati, i ricongiungimenti dopo lunghe separazioni sono momenti delicati che possono causare anche tensioni: si tratta di ri-conoscere gli altri, anche i parenti stretti, e ricostruire ogni volta il contatto e la relazione. Per tutti questi motivi, i rapporti possono soffrire della distanza e finire col deteriorarsi o interrompersi se non si trovano delle modalità efficaci di gestione dei vissuti emotivi.

Tutti questi elementi possono influenzare la nostra psiche e il nostro corpo attraverso sintomi quali:
- Difficoltà respiratorie
- Disturbi dell’alimentazione o del sonno
- Disorientamento e sintomi dissociativi
- Apatia o depressione
- Isolamento e difficoltà a relazionarsi
- Ansia e attacchi di panico
- Pianto improvviso o incontrollabile
- Nervosismo
- Preoccupazioni eccessive e pensieri ricorsivi
- Mal di testa, nausea e altri disturbi psicosomatici

Tuttavia, nonostante la condizione di “migrante” riguardi ormai più di un terzo dell’umanità, il disagio psicologico di queste persone viene poco pensato e riconosciuto. Vivendo in un’epoca in cui, grazie agli smartphone e alla tecnologia, è possibile accorciare moltissimo le distanze fisiche e superare le barriere spaziali si sta costruendo un’idea comune di “cittadini del mondo”, in grado di muoversi e adattarsi senza limiti e senza alcun tipo di ripercussione emotiva; come se i normali sentimenti di disagio o di nostalgia fossero ormai un intralcio alla produttività e al progresso.

Nell’esercizio della nostra attività professionale è capitato anche di imbattersi in persone che dopo il rientro da esperienze di lavoro o di studio all’estero, presentano problematiche psicologiche ormai cronicizzate poiché vissute in solitudine e senza un adeguato supporto. La loro sofferenza sarebbe stata sicuramente più contenuta se avessero potuto trovare già all’estero qualcuno a cui rivolgersi per trattare il malessere nel momento stesso in cui si era manifestato. Spesso ciò accade per l’assenza di una lingua comune che permetta di esprimere i propri pensieri ed emozioni anche in terra straniera.

Per questo, l’Associazione Eco, ha pensato alla necessità di offrire una dimensione empatica e di dialogo per chi vive in terra straniera in modo da creare uno spazio psicologico dove sentirsi riconosciuti, dove collocarsi e ricostruire un filo conduttore della propria esistenza e dove superare i momenti di “scollamento” in cui l’individuo si sente spaesato e rischia di sviluppare modalità di sopravvivenza inefficaci, con ripercussioni sul successo lavorativo o scolastico.

Non potendo offrire un servizio in tutte le lingue del mondo abbiamo pensato all’Inglese come mezzo efficace per abbattere le barriere nell’ambito di una seduta psicologica, essendo ormai la lingua più importante per gli scambi e parte del bagaglio delle nuove generazioni!

Da qui nasce il nuovo progetto di Terapia Psicologica in Inglese per rispondere alle crescenti richieste provenienti dai numerosi stranieri che abitano il nostro territorio e che non padroneggiano abbastanza bene l’italiano da intraprendere un percorso nella nostra lingua.


Categorie correlate