Il complesso di Medea: quando l’odio verso il partner si trasforma in infanticidio

Autore: Monica Iuliano

Il complesso di Medea: quando l’odio verso il partner si trasforma in infanticidio Stando all’ultimo rapporto Eures, tra il 2000 e il 2014, sono stati 379 i figli uccisi da un genitore in Italia. 
Da dati più recenti, ancora in fase di aggiornamento, emerge che sono quasi 500 i bambini uccisi da una mamma o un papà, ovvero dalle persone di cui si fidavano di più. 
Nella fattispecie, passando in rassegna gli ultimi 20 anni, dal delitto di Cogne nel 2002 all’ultimo delitto commesso a Catania nel giugno 2022, vi sono stati, come su detto, molteplici infanticidi, spesso anche plurimi, ma tra quelli più eclatanti per la nostra indagine ricordiamo:  

Matteo e Davide di 4 anni e 21 giorni, furono uccisi a giugno del 2002 dalla loro mamma, Olga Cerise, 31 anni, che li gettò nel laghetto di Les Illes a Saint Marcel, nei pressi di Aosta. La donna ha confessato di averli uccisi. Il GIP dispose la custodia Cautelare nella sezione psichiatrica dell’ospedale Martini di Torino, in quanto non ritenne vi fosse pericolo di fuga, ma di reiterazione dell’omicidio, in quanto come scrisse nell’ordinanza, la donna apparve: “tuttora animata da concreto risentimento ed astio nei confronti del proprio marito e dei suoceri” 
Nel Settembre del 2009 a Castenasto (BO), una donna uccise i figli di 6 e 5 anni accoltellandoli, poi si suicidò buttandosi dalla terrazza al secondo piano della casa dove vivevano. La donna, sarà poi accertato, soffriva di depressione per una separazione in vista dal marito.

Il 6 marzo 2013, una 43enne di Rovito, in provincia di Cosenza, Daniela Falcone, si recò a prendere il figlio di 11 anni a scuola e lo portò in montagna. Li lo uccise, sgozzandolo con le forbici, colpendolo ripetutamente. Tenterà invano, di lì a poco, di suicidarsi. La donna aveva da poco appreso della relazione extraconiugale intrapresa da suo marito. 

Il 29 Novembre 2014, a Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa, Lorys AndreaStival, un bambino di 8 anni, venne trovato in un canalone, a 4 chilometri dalla scuola che frequentava. La madre Veronica Panarello, 26 anni, ne aveva denunciato la scomparsa qualche ora prima. Dall’esame autoptico, pare che il bambino morì per strangolamento causato da fascette di plastica. Dopo diverse versioni riportate dalla donna, tra cui il coinvolgimento anche del suocero, che per questo la denunciò per calunnia, la Panariello, al termine di un processo anche mediatico, sta scontando ad oggi una pena a 30 anni di reclusione per la morte del figlio. Dalla perizia psichiatrica effettuata il 7 giugno 2016, emerge che la donna “dimostra una personalità non armonica, ma era ed è capace di intendere e di volere”.

A Settembre del 2020 a Rivara, in provincia di Torino, Andrea di 11 anni, viene ucciso da suo padre, Claudio Baima Poma, con un colpo di pistola. Dopo avergli sparato, lo ha abbracciato e con l’altra mano ha utilizzato la stessa pistola per suicidarsi con un colpo alla testa. Da quanto scrisse l’uomo sui social prima di tale gesto: “Potrai separare i nostri corpi, non le nostre anime…etc”, pare che l’uomo affetto da una forte depressione, non avesse ben digerito la separazione dalla moglie, e quel gesto estremo, fosse atto a volerle infliggere un dolore immenso. 

A marzo 2021, a Cisliano in provincia di Milano, Edith di soli 2 anni, fu uccisa dalla mamma, Patrizia Coluzzi, 41 anni, accusata di omicidio aggravato per la morte della figlia, avvenuta per soffocamento. Quella sera non c’erano i due fratelli maggiori, avuti dalla 41enne da un primo matrimonio. Dopo aver ucciso la piccola, la donna ha tentato di togliersi la vita, infliggendosi ferite alla pancia e alle braccia con un’arma da taglio. Pare che prima di quel gesto estemo la donna avesse denunciato per aggressione e stalking l’ex compagno, padre della bambina, ma che le accuse fossero state archiviate dal pm stesso. Si ipotizza un omicidio per vendetta, data la difficile separazione che i due coniugi stavano affrontando. 

A gennaio 2022, a Mozzarone in provincia di Varese, Davide Paitone, di 40 anni uccide con una coltellata alla gola il figlio, Daniele, di 7 anni. I carabinieri ritrovano il corpo del piccolo nascosto dell’armadio, insieme con un biglietto di confessione. L’uomo, dopo aver ammazzato il figlio, tenta di uccidere anche la moglie dalla quale si stava separando, accoltellandola. Il 40enne ha provato a fuggire, ma è stato rintracciato e arrestato dai carabinieri. Prima del ritrovamento del cadavedere l’uomo invia un vocale alla ex moglie dove esprime la sua rivendicazione rispetto all’agressione: voleva punirla perchè gli aveva rovinato la vita e voleva portargli via il figlio; quando gli viene chiesto dove fosse Daniele lui risponde che “il bambino è al sicuro”. Secondo il GIP “la capacità di inviare un simile messaggio dopo l’accoltellamento della donna e del bambino, denota una freddezza criminale e un’organizzazione di pensiero e d’azione del tutto sintonizzate con la premeditazione dei delitti”. 

Nel pomeriggio del 13 giugno 2022, Martina Patti, 23 anni, denuncia il rapimento della figlia, Elena Del Pozzo di quasi 5 anni da parte di tre uomini incappuciati. Il giorno dopo, confessa di averla uccisa e indica ai carabinieri il luogo dove l’ha sepolta. Da quanto emerge dalla vicenda diventata fortemente mediatica, pare che la giovane donna, non accettasse l’idea che la figlia si stesse affezionando alla nuova compagna del padre. Da un primo esame del GIP pare che la donna avesse tuttal’intenzione di uccidere e che il suo fosse un gesto premeditato. 
Come visto, molti di questi infanticidi terminano con un suicidio da parte del genitore-assassino; probabilmente il suicidio, sussegue il momento in cui si “realizza” di aver commesso l’omicidio, di aver ucciso il proprio figlio/a. 

In altri casi, invece, non solo questa presa di coscienza piuttosto che “pentimento” non avviene, ma dalla ricostruzione del delitto e dalle menzogne atte a coprire il fatto, sembra possa esserci una sorta di premeditazione o comunque la volontà di quel momento, di uccidere il/i proprio/i figlio/i. 

In quasi tutti i casi riportati, il movente è legato alla separazione e/o gelosia nei confronti del ex partner, tale tendenza viene ricondotta in psicologia alla cosiddetta“Sindrome o complesso di Medea“. 
Nella mitologia greca, Medea, è uno dei personaggi più celebri e, nello stesso tempo controversi. Il suo nome in greco significa “astuzie, scaltrezze”, infatti la tradizione la descrive come esperta di arti magiche e dotata di poteri addirittura divini. 
Figlia di Eete, re della Colchide e custode per mezzo di un feroce e terribile drago, del Vello d’oro, capace di guarire le ferite.
Quando arrivarono gli Argonauti a conquistare la Colchide, presa dall’amore per Giasone lo aiutò a conquistare il vello d’oro, uccidendo il proprio fratello Aspirto; dopo il tradimento alla patria e la perfidia dimostrata nei confronti della sua famiglia, fuggì con Giasone e visse con lui in armonia, finché il re greco Creonte non propose a Giasone di dare la propria figlia in sposa, e quest’ultimo accettò.
A questo punto Medea, oltre a Creonte e sua figlia, uccise anche tutti i suoi figli avuti con l’eroe greco per vendicarsi del suo tradimento; da qui l’immagine di Medea associata al figlicidio per vendetta contro il coniuge.
La psicoanalisi è solita interpretare questo gesto come il voler “amputare” Giasone, poiché i figli erano una parte sua e il voler imporre da parte di Medea il totale possesso su di loro: “io li ho partoriti, io ho il diritto di ucciderli”. 

A tal proposito lo psichiatra Philip Resnick (1969), parlava proprio di “vendetta del coniuge”, descrivendo come l’aggressività veniva spostata dal reale oggetto di risentimento (il marito), verso il figlio, che rappresentava il frutto di tale unione.
Pertanto, capita in situazioni al limite come quelle su descritte, che il disagio, la sofferenza psichica e l’incapacità di gestire una separazione, possano essere proiettate dal coniuge al figlio, che diventa così la rappresentazione vivente di un legame che invece si sta dissolvendo, diventando pertanto vittima e mezzo attraverso il quale far soffrire il partner.  

Stando a quanto su detto, si è propensi a pensare e a cercare “qualcosa di patologico”, in una madre o in un padre che uccidono il/la proprio/a figlio/a, si tende a pensare spesso al cosiddetto raptus omicida dato da una crisi psicotica o da situazioni al limite della psicosi, ma nel complesso di Medea, la madre o il padre, sono perfettamente lucidi e consapevoli di quello che stanno facendo e non hanno dunque vizi di mente, ovvero sono in pieno possesso della capacità di intendere e di volere (art. 85c.p.). 

Bisogna però considerare che, il fatto di non avere infermità mentali permanenti o temporanee, non esclude la presenza di altre patologie psichiatriche e non, correlate a tale complesso, quali disturbi dell’umore (depressione, depressione post- partum), dipendenza da sostanze, disturbi della personalità, sicuramente accompagnati da situazioni familiari e contestuali instabili e dalla mancanza di un supporto emotivo. 
Questo sicuramente non è un’attenuante, e di fatto ai genitori-assassini che non scelgono di togliersi la vita a loro volta, viene spesso dato il massimo della pena dal sistema giudiziario, ma può essere d’aiuto nel comprendere che per commettere un tale gesto, spesso connotato da una disumanità indescrivibile, è sicuramente plausibile che non si sia del tutto privi di disturbi mentali.
 

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