Cure palliative: psicologia del paziente e della famiglia

Autore: Pietro Mignano

Cure palliative: psicologia del paziente e della famiglia Il ruolo dello psicologo nel campo delle cure palliative consiste nel fornire supporto ai diversi attori presenti nel percorso di fine vita, in termini di formazione e/o sostegno.

Questo avviene attraverso colloqui con il paziente, i parenti, il personale di assistenza ed i volontari; inoltre con gli operatori e i volontari si effettuano anche incontri di formazione e supervisione.
 
PAZIENTE
 
Ricordiamo che l’obiettivo delle cure palliative è il miglioramento massimo della qualità di vita intesa non solo dal punto di vista fisico, ma anche psicologico; la sofferenza o il disagio psicologico infatti sono più silenziosi e difficili da quantificare rispetto al dolore fisico.
La persona malata attraversa un momento drammatico, in cui vi è un intreccio di pensieri, sentimenti, emozioni ed incertezze difficili da gestire perché ci si trova davanti a qualcosa di difficile comprensione.
E’ pertanto fondamentale il massimo rispetto dell’autonomia e dei valori del paziente, dando ascolto ai suoi aspetti psicologici e sociali, puntando alla massima valorizzazione delle sue risorse per consentirgli di vivere il più serenamente possibile fino alla morte.
 
In prima battuta si valuta quale sia la consapevolezza delle sue reali condizioni e si cerca di comprendere quanto e cosa voglia effettivamente sapere. E’ necessario poter individuare le sue aspettative, conoscere le eventuali direttive anticipate ed accompagnarlo nel prendere contatto con la gravità del proprio quadro clinico, rispettando i suoi tempi e le sue disponibilità ad accogliere particolari informazioni. Non è per tutti scontato infatti collegare una malattia con il suo decorso clinico: spesso succede che molti pazienti non riescano a comprendere realmente cosa è stato loro comunicato dai medici in modo frettoloso e magari senza un adeguato atteggiamento empatico.
 
Il paziente in fase terminale può aver il bisogno di capire cosa sta avvenendo e cosa avverrà, sebbene questa sua necessità si accompagni spesso con la difesa psicologica elementare che è la negazione. E’ quindi necessario essere rispettosi, evitando di insinuare nella sua testa parole o concetti che può non essere ancora pronto e disposto ad accettare.
La comunicazione non dovrebbe avvenire solo durante un incontro, ma dovrebbe essere frazionata all’interno di un processo che rispetti le capacità cognitive ed emotive dell’interlocutore. In un singolo incontro capita infatti spesso che si comprenda solo la struttura lessicale di un messaggio, senza coglierne il senso e il significato
 
Si ricordano infatti le fasi di Kubler-Ross per le quali il malato passa da una fase di rifiuto, ad una di rabbia, ad una di negoziazione, ad una di depressione, fino ad arrivare a quella  della accettazione. Non è scontato il passaggio da una fase alla successiva poiché, per esempio, a seconda delle disponibilità emotive, cognitive, cliniche del paziente può essere che non si raggiunga neanche la completa accettazione, o che si regredisca ad una fase precedente (per esempio talvolta dalla rabbia si ritorna al rifiuto…).
 
In un secondo tempo, una volta compresa la reale consapevolezza del paziente e la sua disponibilità a conoscere, l’intervento dello psicologo è rivolto ad offrire uno spazio di sicurezza, in cui si cerca di trasmettere il messaggio che è importante poter stare bene o stare al meglio fino alla fine. Si creano quindi occasioni in cui il paziente può aver modo, se lo desidera e se si coglie che può essere un suo bisogno, di riconoscere-nominare-esprimere-condividere le sue emozioni; emozioni che spesso vengono represse o taciute proprio perché vissute unicamente con sé stessi, senza aver occasione o senza concedersi di condividerle con qualcun altro. Questo “qualcun altro” potrebbe essere un familiare, ma spesso un malato è restio a mostrare il proprio disagio o le proprie paure ad un parente o a qualcuno con cui ha un legame significativo o di affetto.
Può essere quindi molto più semplice parlare e “sfogarsi”, cioè allentare la tensione emotiva, aprendosi all’interno di un rapporto di “massima sicurezza”, libero cioè da vincoli o da timori di fare “del male a qualcuno” o di mostrare agli altri la propria debolezza. Questo avviene spesso già con il personale di cura (infermieri e OSS) che, per forza di cose, entra già in contatto intimo con il paziente, essendo le persone che il paziente vede tutti i giorni ed “affida” alle loro mani il proprio corpo.
Grazie anche ad un continuo confronto con il suddetto personale, la figura dello psicologo può accompagnare il paziente a ricercare le proprie risposte al senso della vita, della morte, anche della speranza della morte, magari integrando l’attività svolta dall’assistente spirituale.
Gli incontri con lo psicologo possono essere occasione per il malato di accogliere il suo bisogno di rileggere-rievocare-ripercorrere la propria vita e quindi di recuperare ricordi piacevoli e spiacevoli, o di consentirgli di giungere a nuove narrazioni della sua storia e di indagare eventualmente sui possibili sensi di colpa non risolti. Spesso aver un confronto su qualcosa di inespresso può essere un modo per alleviare un peso faticoso da sopportare.
 
Molti pazienti possono avere una struttura di personalità che li porta ad essere molto chiusi verso chiunque, sia questo un familiare, un operatore o uno psicologo; in tal caso il lavoro dello psicologo può essere limitato solo a rassicurare relativamente alle cure palliative. Il lavoro si limita quindi al primo incontro di conoscenza o al massimo ad eventuali incontri di rassicurazione successivi.
 
FAMIGLIA
 
Le cure palliative sono rivolte al malato, ma tengono in grande considerazione anche la sua famiglia, prendendosi carico del contesto in cui è entrato a fare a parte un nuovo membro, che è la malattia. Sia a domicilio che in un ricovero, infatti, spesso il paziente passa la maggior parte del tempo con i suoi famigliari, o comunque il momento più significativo della giornata è circoscritto alla visita dei propri cari. Si rende necessario quindi una valorizzazione delle risorse del malato su cui far forza, ma è utile anche ricercare la massima valorizzazione delle risorse della famiglia, sia economiche che emotive e di coping. Solo in questo modo si rende possibile la migliore alleanza terapeutica per migliorare la vicinanza al paziente.
 
La malattia determina profondo stress nel malato e in chi si prende cura di lui; per questo è utile cercare un confronto continuo anche con i famigliari per tutto ciò che è relativo all’iter terapeutico e su quali sono le aspettative, con informazioni per accompagnare i caregiver a mantenere una reale consapevolezza e per alleviare le loro emozioni di ansia e di preoccupazione, affinché ciò che è sconosciuto non aggravi lo stato di disagio emotivo.
 
L’azione dello psicologo quindi si limita a gestire lo stress, ricordando che anche per il famigliare è frequente che il percorso di accettazione della prognosi infausta sia caratterizzato dalle diverse fasi, che partono dal diniego-rifiuto, fino ad all’accettazione.
Lo psicologo si pone quindi l’obiettivo di accompagnare la famiglia lungo questo percorso caratterizzato dalla sofferenza, dalla fatica fisica e da svariate emozioni che possono andare dalla rabbia, all’ansia-paura fino al dolore, tristezza e disperazione. Spesso il parente è preda di una confusione in cui alcune emozioni si confondono con altre, quelle positive con quelle negative, quelle relative alla malattia con altre relative a diversi contesti di vita; è proprio questo marasma che determina un maggiore dolore nelle persone e, di conseguenza, in tutto il loro contesto relazionale.
E’ frequente cioè che la persona non riesca a prendere contatto con la propria reale emotività, rischiando di valutare i propri sentimenti in modo sbagliato, come i sensi di colpa riconducibili al rapporto pregresso con il paziente.
Il famigliare può sentirsi infatti “responsabile” della malattia , rimproverandosi di non aver capito o di non aver agito prima; si può far comprendere che non è, o che non è stato possibile, avere il controllo dell’insorgere della malattia; alla base di queste modalità di funzionamento emotivo o di pensiero, si può ritrovare la fase della negazione, per la quale si fatica ad accettare l’impossibilità di agire e di sopportare il proprio senso d’impotenza.
 
Lo psicologo entra in relazione con i famigliari valutando la loro reale consapevolezza, accompagnandoli a prendere contatto con la realtà relativa al loro parente, realtà che spesso “viene deformata”, costruendo teorie ingenue e/o illusioni. Così come avviene con il paziente, è fondamentale gestire la comunicazione di un determinato messaggio, affinché questo venga compreso realmente ed entri a fare parte dei dialoghi interni. Ritengo quindi che sia importante iniziare a comprendere quale sia il pensiero del parente, che si assume come “base-line” per attuare una sua riformulazione nel modo più aderente possibile alla realtà. Anche in questo caso la comunicazione non può limitarsi ad uno singolo colloquio che, se non è accompagnato da un intero processo comunicativo, può avere l’effetto di incrementare lo stato di confusione.
 
Lo psicologo può quindi aiutare ad avere una maggiore chiarezza offrendo uno spazio per riconoscere-nominare-esprimere gli stati d’animo. Particolarmente importante può essere l’espressione e condivisione dell’emozione, che altrimenti rischia di rimanere “bloccata nel corpo”. L’obiettivo non è eliminare la tristezza, ma la sua serena accettazione.
 
Riassumendo:
  • Lo psicologo può entrare in “punta di piedi” (cioè solo se è bene accettato) nel complesso famigliare per valutare il clima emotivo, al fine di calibrare il suo intervento con un approccio sistemico-famigliare che si rivolga sia all’intero ecosistema che agli individui che si avvertono con una maggiore fragilità.
  • Talvolta è possibile entrare in contatto con le dinamiche relazionali, da sempre esistite fra i diversi membri della famiglia, ma che possono esprimersi solo durante momenti di crisi o di particolare difficoltà, come una malattia. Ci si può chiedere quindi se è possibile appianare gli eventuali dissidi relazionali, con l’unico obbiettivo di potere ricreare il migliore clima affettivo di cui può necessitare il paziente per la miglior morte possibile. Non sarà possibile, almeno nel contesto delle cure palliative, perseguire l’obbiettivo di riappacificare  quelle relazioni che magari sono compromesse da anni.
  • Particolare attenzione deve essere rivolta ai membri fragili della famiglia, quali possono essere bambini o anziani con particolari fragilità pre-esistenti (es.: adozioni, condizioni di demenza o d’invalidità fisica o mentale o psichiatrica). In questi casi è necessario ricercare la migliore collaborazione con gli altri servizi presenti sul territorio, che hanno o che possono prendere in carico queste persone.
  • In particolare si possono presentare circostanze familiari e sociali degne di particolare attenzione, per le quali può rendersi utile cercare un contatto con la rete dei servizi sociali:
    • Assenza o poca disponibilità della rete parentale
    • Stato di disabilità o di difficoltà del caregiver
    • Scarso o assente sostegno sociale
    • Difficoltà economiche
    • Difficoltà di accesso alla rete dei servizi di cura
    • Conflitti intra e extra famigliari
    • Presenza di minori o di disabili.


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