Con gli occhi di un bambino

Autore: Caterina Carloni

Con gli occhi di un bambino Il saggio, segnalato con diploma di merito alla XXIX edizione del premio letterario internazionale Città di Pomezia, è stato qui riportato nella sua lunghezza originaria, più ampia ed approfondita rispetto al testo presentato al concorso (norme della sezione E sulla dimensione delle opere).

“Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini” (Dante Alighieri)
“Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali vidi un magnifico disegno: rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. Sotto c’era scritto: “I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede”. Meditai a lungo sulle avventure della jungla, e, a mia volta, riuscii a tracciare il mio primo disegno. Poi mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava, ma tutti mi risposero: “Spaventare? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?”. Ma il mio disegno non era quello di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Fu così che a sei anni io rinunciai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Scelsi un’altra professione e imparai a pilotare gli aeroplani. Nel tempo, ho incontrato molte persone importanti e ho vissuto a lungo in mezzo ai grandi. Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da vicino. Ma l’opinione che avevo di loro non è molto migliorata. Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, tentavo l’esperimento del mio primo disegno, che ho sempre conservato. Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: “E’ un cappello”. E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di aver incontrato un uomo tanto sensibile.”

Così comincia il famoso racconto di Antoine de Saint-Exupery “Il piccolo Principe” (1943), un vero e proprio inno alla purezza dei sentimenti dei bambini e alla loro capacità di vedere il mondo con idealismo e candore, riuscendo a ricontattare, pur tra le asprezze e le delusioni della vita, il lato poetico e misterioso dell’esistenza.
Il Piccolo Principe – l’archetipo del puer aeternus (l’eterno fanciullo o fanciullo divino) – incarna la tendenza, tipica dell’infanzia, a restare affascinati dalla natura, dal gioco, dalle piccole cose che appaiono come doni inestimabili della vita; esprime la saggezza che deriva dal saper ascoltare le favole, parlare con gli animali e coglierne i segreti, come quello sussurrato al bambino dalla sua amica Volpe: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che con il cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Coniato nel 1912 da Jung, il termine puer aeternus fu successivamente  ripreso da altri psicologi e terapeuti dell’epoca che addirittura lo impiegarono come sinonimo dell’Es, l’inconscio individuale.
L’archetipo, vasto e complesso, racchiude, in realtà, come tutti i simbolismi, molte contraddizioni, zone d’ombra e differenti sfumature interpretative: per Jung il bambino interiore rappresenta l’inizio e la fine, la creatura che esisteva prima dell’uomo e, al tempo stesso, la creatura finale, un’anticipazione di quello che la creatura sarà e della sua vita oltre la morte. Il suo tema è legato alla rinascita, alla gioia e alla creatività, ma può avere anche una connotazione aggiuntiva diversa: l’allieva prediletta di Jung, M.L. Von Frantz, ha preso in esame, ad esempio, nel suo libro “Il Puer aeternus”, il suo aspetto di ombra; se da un lato, infatti, il bambino rappresenta il rinnovamento della vita, la spontaneità ed una nuova apertura verso il futuro, dall’altro manifesta anche un aspetto distruttivo: la tendenza a essere dipendente, pigro e a fuggire i problemi, rappresentando “l’infantilismo” che deve essere sacrificato per poter crescere.

L’opposto polare del Puer, secondo la visione di Jung, è il Senex, ovvero la rappresentazione mitologica di Saturno/Cronos, il signore del Tempo e del Karma. Saturno è il pianeta simbolicamente preposto alla strutturazione dell’Io, quindi alla maturazione e concretizzazione degli obiettivi, associato alla razionalità e alla fredda logica. Mentre il Senex si perfeziona attraverso il tempo, per il Puer non esiste sviluppo. Egli non possiede un volto organico che maturi, cresca e si trasformi.
Come ben rileva Hillmann nei suoi studi (“Saggi sul Puer”, 1986), tuttavia, “….. è solo nella prospettiva dell’Io che divengono possibili le opposizioni, generando, come nel caso di Puer e Senex, un archetipo bifronte”. I due modelli convergono, secondo l’autore, nella figura di Ulisse, il quale, grazie a questa sua doppia valenza, viene condotto dal cieco Tiresia all’iniziazione rituale della discesa al mondo degli inferi. “…Ciò gli consente di cogliere il significato della sua missione nel mondo: lo spirito giovane trova la sua controparte ammonitrice e piena di esperienza che gli insegna la sopravvivenza mentre l’uomo adulto ritrova il pathos dell’eroe e il cuore ridestato. Può così salpare di nuovo e continuare a viaggiare”.
Sul piano mitologico, il puer è correlato all’immagine del paradiso perduto, quel luogo d’amore, armonia e felicità che precede il cosiddetto peccato originale e la conseguente “caduta” al piano dualistico dell’esistenza (o separazione da Dio). La letteratura occidentale ce lo propone personificato, a seconda degli autori, in Peter Pan, Icaro, Hermes/Mercurio, i gemelli Castore e Polluce ed Eros/Cupido. La puella trova invece la sua raffigurazione più potente nella figura di Kore- Persefone.
Hermes è il giovane Dio, messaggero dell’Olimpo, dotato di calzari alati che gli permettono di volare. Si diletta a fare scherzi ai divini fratelli, ma viene sempre perdonato dal Padre Zeus, poiché la caratteristica dell’eterno fanciullo è di suscitare in tutti simpatia. Il dio presiede le facoltà intellettive e la comunicazione; ha il compito di far circolare le informazioni e le notizie. Per fare ciò, sorvola velocemente il mondo delle idee, saltando da un luogo all’altro, discontinuo e in perenne moto.
Anche Peter Pan, noto puer aeternus delle favole, ama solo giocare, anzi; per lui non c’è alcuna differenza tra gioco e realtà, e la cosa che più teme è la noia. É in grado di volare perché non ha mai smesso di credere di poterlo fare.

Una rappresentazione recente del puer è anche la figura di Mozart così come è stata portata sullo schermo nel film di Milos Forman Amadeus: gioioso, giocoso, irriverente, ben convinto del suo talento, in estasi di fronte agli apprezzamenti.
La letteratura dell’India antica contiene numerose storie i cui protagonisti sono fanciulli dotati di qualità divine. Non solo: le Scritture Vediche affermano chiaramente che i bambini rappresentano una delle molte vie attraverso le quali Dio si manifesta agli uomini per indicare loro la strada per raggiungerLo.
L’undicesimo Canto dello Srimad Bhagavatam,, indica, oltre al diksha-guru, che inizia ai sacri mantra, e allo siksha-guru, che dà gli Insegnamenti, ben altri ventiquattro guru, tra cui il bambino. Essi appaiono all’inizio della sezione chiamata Uddhava-gita, in cuiUddhava, devoto e cugino di Krishna, s’incontra con Lui poco prima della Sua partenza da questo mondo per chiederGli istruzioni spirituali.
Shri Krishna spiega ad Uddhava che il loro antenato, il re Yadu, conosceva un giovane avadhuta, un rinunciato senza fissa dimora che aveva lasciato tutte le sue proprietà e le sue responsabilità materiali. Yadu notò che questo giovane aveva un aspetto sereno e gioioso benché non avesse alcuna delle consuete comodità della vita. E allora gli chiese come facesse ad essere così felice. L’avadhuta rispose che era stato abbastanza fortunato da avere avuto molti maestri, i quali gli avevano indicato il cammino da percorrere:
“O re, ho preso rifugio in ventiquattro guru, che sono i seguenti: la terra, l’aria, lo spazio, l’acqua, il fuoco, la luna, il sole, il piccione e il pitone; il mare, la falena, l’ape mellifera, l’elefante e il ladro di miele; il cervo, il pesce, la prostituta Pingala, l’uccello kurara e il bambino; la ragazza, il fabbricante di frecce, il serpente, il ragno e la vespa. Mio caro re, studiando le loro attività ho appreso la scienza di sé” (Srimad-Bhagavatam XI.7.35).
L’insegnamento ricevuto dal bambino viene così descritto:
“Nella vita di famiglia, i genitori sono sempre ansiosi per la casa, per i figli e per la reputazione. Ma io non ho nulla a che vedere con queste cose. Non mi preoccupo affatto della famiglia, non m’importa dell’onore e del disonore. Godo soltanto della vita dell’anima, e trovo l’amore sul piano dello spirito; così viaggio sulla terra come un bambino” (Shrimad-Bhavagatam XI.9.4).

La vicinanza tra il mondo infantile e quello divino è testimoniato anche da altre tradizioni spirituali, come quella cristiana: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il regno dei Cieli; se non diventerete come bambini non potrete entrare nel regno di Dio”, è scritto nel Vangelo di San Luca (18.15-17). Diventare come bambini significa recuperare lo sguardo incantato sul mondo; sapersi liberare da schemi e pregiudizi per ritrovare la purezza, la capacità di provare meraviglia e di sentire una fiducia incondizionata verso la vita. Vuol dire ritrovare la semplicità e l’abbandono filiale a Dio.
Negli Yoga Sutra di Patanjali, ciò è sottolineato con forza:
“Ishvara pranidhanad va”, [ samadhi può essere ottenuto] praticando l’abbandono a Dio.
“Il samadhi può anche manifestarsi non necessariamente come il frutto di una metodologia rigorosa ma spontaneamente, causato dall’amore per Dio” (Marco Ferrini, “Psicologia dello Yoga”, commento agli Yoga Sutra di Patanjali, Samadhi Pada, sutra XXIII).
É fondamentale per ognuno di noi riuscire a contattare e risvegliare il fanciullo divino che dimora nella nostra anima, perché è l’unico che ci consente di vivere la realtà senza rinunciare ai nostri sogni, ideali e valori.
Recuperare la dimensione archetipica del bambino equivale a portare nella nostra vita valori di umanità, coraggio nel tendere una mano anche a chi ci osteggia, ricongiungersi con la nostra parte bambina ferita e trascendere quel dolore, imparare a perdonarsi e a perdonare. Come dimostra la straordinaria storia di Prahlada Maharaja, un bambino di appena cinque anni dal cuore puro e dotato di divina saggezza, narrata nel settimo canto dello Srimad-Bhagavatam:
“Hiranyakashipu (il terribile demone che terrorizzava l’universo intero) aveva quattro figli meravigliosi, ma tra loro Prahlada era il migliore. Prahlada, infatti, era la fonte di tutte le qualità spirituali perché era un puro devoto di Dio, la Persona Suprema” (Shrimad-Bhagavatam VII.4.30).

“Dotato di ottimo carattere e di un’eccellente cultura degna di un brahmana qualificato, Prahlada era fermamente determinato a comprendere la Verità Assoluta e dominava in modo perfetto la mente e i sensi. Era gentile verso tutti gli esseri come lo è l’Anima Suprema, ed era il migliore amico di tutti: con le persone degne di rispetto agiva esattamente come un umile servitore, per i poveri era come un padre, per i suoi pari era affettuoso come un fratello comprensivo, e considerava i suoi maestri spirituali e i confratelli più anziani come Dio, la Persona Suprema stessa. Era completamente libero dall’orgoglio innaturale che avrebbe potuto nascere in lui a causa della sua buona educazione, delle sue ricchezze, della sua bellezza, della sua aristocrazia o altro (Shrimad-Bhagavatam VII.4.31-32).
Pur essendo nato in una famiglia di demoni (asura), il bambino non era un demone, ma un grande devoto di Dio e per questo motivo suo padre lo tormentava continuamente, benché egli fosse il suo stesso figlio. Quanto più Prahlada Maharaja glorificava il Signore Supremo, tanto più il demone suo padre si agitava e s’irritava, fino al punto da decidere di ucciderlo. Un giorno Hiranyakashipu, esasperato dalla ferma devozione e fede di suo figlio, gli chiese se per caso Dio fosse presente anche nelle colonne del palazzo. Prahlada immediatamente affermò che, grazie alla Sua onnipresenza, il Signore era certamente anche là. Nell’ascoltare questa risposta dalle labbra del bambino, Hiranyakasihpu cominciò a deriderlo definendo fantasie infantili le sue affermazioni e assestando contemporaneamente con forza un pugno sulla colonna.
Non appena ebbe colpito la colonna, un suono tumultuoso ne uscì, e apparve il Signore nella meravigliosa forma di Sri Nrisimhadeva, mezzo uomo e mezzo leone, che uccise immediatamente il re dei demoni. Quindi il Signore si sedette sul trono, mentre Prahlada Maharaja Gli offriva omaggi e preghiere.

“Quando Sri Nrisimhadeva  vide il piccolo Prahlada Maharaja prostrato alle piante dei suoi piedi di loto, sentì una grande estasi suscitata dall’affetto verso il Suo devoto. Sollevando Prahlada, il Signore appoggiò sulla testa del bambino la Sua mano di loto che è sempre pronta a dissipare la paura in tutti i Suoi devoti (Shrimad-Bhagavatam VII.7.5).
“Caro Signore – disse Prahlada Maharaja – la gente desidera elevarsi ai sistemi planetari superiori per godere di una lunga vita di opulenza e di piacere, ma io ho già considerato tutto ciò nell’attività di mio padre. Quando mio padre in collera rideva con sarcasmo degli esseri celesti, essi erano immediatamente vinti da un semplice movimento delle sue sopracciglia. Eppure, mio padre che era così potente, è stato dominato e liberato da Te in un attimo. Caro Signore, ora ho un’esperienza completa di ciò che si riferisce all’opulenza di questo mondo, ai poteri mistici, alla longevità e agli altri piaceri materiali di cui godono tutti gli esseri, da Brahma fino alla formica. Nella forma del tempo potente Tu li distruggi tutti. Perciò, grazie alla mia esperienza, io non desidero possederli. Signore, Ti chiedo di mettermi in contatto con un Tuo puro devoto e fare in modo che io possa servirlo come un sincero servitore” (Shrimad-Bhagavatam VII.9.23-24).
Dio, la Persona Suprema, disse: “Caro Prahlada, tu sei così buono. Auguro ogni buona fortuna a te, che sei il migliore nella famiglia degli asura. Sono molto soddisfatto di te. É mia gioia soddisfare i desideri di tutti gli esseri, perciò tu puoi chiederMi qualunque benedizione desideri ottenere” (Shrimad-Bhagavatam VII.9.52).
Il grande devoto Prahlada Maharaja chiese la sola benedizione del perdono delle attività colpevoli del padre e, su ordine del Suo Salvatore, Shri Nrisimha, si insediò sul trono agendo come un re saggio e giusto, distaccato dai beni materiali e incessantemente assorto ad ascoltare gli Insegnamenti  del Signore e ad adorarlo.
L’abbandono al Signore Supremo da parte del piccolo Prahlada, gli consente di superare tutte le prove e di conquistare il favore divino, proprio come affermato nella Bhagavad-gita: “Coloro che seguono la via imperitura del servizio di devozione e s’impegnano in modo totale, con fede, facendo di me l’obiettivo supremo, Mi sono molto, molto cari” (Bhagavad-gita XII.20).

Un’altra affascinane storia, riguardante un bambino dalle doti straordinarie e dalla tenacia irremovibile nel ricercare la grazia del Signore Supremo, si trova nel IV canto dello Shrimad-Bhagavatam. Si racconta che Dhruva, un bambino di cinque anni, figlio del re Uttanapada, fu offeso così profondamente nel suo orgoglio, vedendosi respinto dal padre, che decise di praticare una penitenza di sei mesi astenendosi dal cibo e dall’acqua. Con la mente fissa sul Signore e recitando un potente mantra, chiese a Dio di diventare il più potente re dei tre mondi e di occupare una posizione mai raggiunta da nessuno prima di lui. Questo sacrificio impressionò i cieli e Shri Vishnu apparì di fronte al ragazzo per accontentarlo, ma proprio in quel momento, Dhruva, il bambino kshatriya (il comparto sociale dei guerrieri secondo la cultura vedica), comprese che il vero fine dell’esistenza non era il successo materiale ma la liberazione dalla ruota di nascite e morti, e si accorse di aver pregato solo per cose inutili. Grazie alla sua comprensione dei valori eterni e della caducità dei beni terreni, Dio, il Signore Supremo, gli concesse di governare sulla Stella Polare, il grande pianeta scintillante circondato da tutti i sistemi solari. Questa storia ci insegna che tra i grandi pregi dei bambini c’è la capacità di crescere, ravvedersi e apprendere.
Anche nella Katha Upanishad è narrata la storia di un bambino di 10 anni che insegna, con il suo esempio, a percorrere il cammino della conoscenza spirituale  e della liberazione dagli attaccamenti.
Naciketa, figlio di un brahmino (un sacerdote che officiava i sacrifici volti ad ottenere il favore divino), ispirato da profonda saggezza, intuisce l’inutilità di un sacrificio tramite il quale si rinuncia a tutto (vacche, oro e ogni altra proprietà) tranne che a se stessi, trattenendo proprio quell’ego che è alla radice di ogni sofferenza e causa dell’incatenamento alla legge di nascite e morti.
“Naciketa, avvicinatosi (un giorno) al proprio padre, gli chiese: Padre, a chi mi offrirai come sacrificio? Il fanciullo pose questa domanda due volte, e poi una terza. Suo padre gli rispose allora con asprezza: Sacrificherò anche te alla Morte” (Katha Upanishad I.4).
La Verità Divina penetra allora nel cuore del bambino, che, comprendendo lo stato d’animo del genitore, il quale era già pentito della sua decisione, si affretta subito a consolarlo:
“Tieni conto del modo in cui tutti i tuoi avi sono andati e venuti. Questo andirivieni è il destino di tutti coloro che verranno dopo di noi. Al pari del grano anche l’uomo matura e cade sulla terra, e riemerge un’altra volta dalle ceneri come il grano” (Katha Upanishad I.5).
Sebbene apparentemente l’uomo nasca e muoia in continuazione, Naciketa riesce a realizzare che in realtà nessuno nasce e muore, e quindi, non bisognerebbe provare rammarico o dispiacere nel lasciare questo mondo.
Al deva della morte, Yama, Naciketa non chiede altri favori che di riconciliarsi con il padre e di essere istruito sul mistero del sacrificio del fuoco e della morte: “Nessun uomo è mai soddisfatto dalle ricchezze. Quale ricchezza può mai esistere, o Morte, dopo aver visto te? Dove mai è la vita quando la Morte bussa alla nostra porta? Che cosa significa la ricchezza (per un uomo che è destinato a morire)? Di conseguenza l’unica grazia degna di valore che ti si possa chiedere è questa e questa sola. Istruiscimi soltanto sul mondo futuro, sul quale la gente nutre dubbi. Istruiscimi unicamente su questo, di modo che tale conoscenza possa condurre al risultato più elevato” (Katha Upanishad, canto I.27-29).
La potenza dispiegata dal Signore Supremo nel proteggere i piccoli e gli indifesi è facilmente deducibile anche dalle particolari circostanze dell’avvento di Shri Krishna.
Bhagavan Shri Krishna venne sulla terra nel buio della notte, nei confini chiusi di una cella di prigione dove sua madre e suo padre erano tenuti prigionieri dal malvagio zio Kamsa. Tuttavia, al momento della sua apparizione, tutte le guardie si addormentarono, le catene si ruppero e le porte sbarrate furono gentilmente aperte. Così Vasudeva (padre di Krishna), in modo sicuro e facile trasportò il bambino Krishna attraverso il fiume Yamuna fino a Gokul.

Il messaggio di questa storia è chiaro: si può vivere nel buio della mezzanotte, si può essere legati e incatenati da tanti attaccamenti, tentazioni, rabbia, rancori, dolori e dalla forza vincolante di maya. Possiamo sentirci bloccati nella prigione dei nostri corpi, la prigione della dualità. Possiamo essere limitati nelle forze e indifesi come bambini. Tuttavia, non appena lasciamo che il Signore viva nei nostri cuori, l’oscurità svanisce, tutte le catene vengono spezzate e tutte le porte della prigione vengono aperte liberamente. Ovunque è il Signore non ci sono chiusure. Ovunque ci sia Dio, la protezione e la libertà sono assicurate.
Per ognuno di noi è facile identificarci in un bambino. Tutti siamo stati piccoli e indifesi, tutti siamo stati sgridati e abbiamo subito ingiustizie, tutti abbiamo avuto paura di perdere la sicurezza, l’approvazione, l’amore dei genitori, e tutti avremmo voluto per magia recuperare il calore, l’affetto e il benessere originario.
Tutelare l’infanzia, curare l’educazione dei bambini e proteggere la loro crescita valorizzando e sostenendo i talenti individuali dovrebbe essere il primo dovere di una società civile.
Nella cultura Vedica classica, la cui filosofia di vita si basava sui principi eterni del dharma e del karma, l’insegnamento dei bambini avveniva nella guru-kula, l’ashrama del maestro spirituale, dove il padre mandava i figli quando avevano raggiunto l’età di cinque anni. Oltre all’adeguata istruzione accademica, essi ricevevano una formazione spirituale completa, che li rendeva buoni cittadini, capaci di adempiere i loro doveri verso la società, e soprattutto di liberarsi dalle quattro miserie dell’esistenza materiale (nascita, malattia, vecchiaia e morte).
Preservare l’infanzia dai condizionamenti del mondo adulto e aiutare i bambini a crescere senza perdere lo stupore e l’immediatezza espressiva che li caratterizzano è fondamentale per l’acquisizione di quella dimensione puramente infantile che costituirà, in futuro, una realtà della loro struttura psicologica, quel puer aeternus che dimora in ognuno di noi e che mantiene in sé le caratteristiche legate al mondo dell’infanzia: giocosità, creatività, stupore, contatto con le profondità dell’anima, forza capace di riequilibrare un mondo adulto spesso svuotato, in cui viene a mancare l’entusiasmo, in cui non si sa godere del qui ed ora, in cui ci si vergogna ad esprimere le proprie emozioni e a chiedere aiuto.
Ascoltiamo i bambini e impariamo da loro il segreto della semplicità e dell’abbandono fiducioso  al vero sapere, al re di tutte le scienze, al più segreto dei segreti: l’Amore universale e incondizionato verso il creato, le creature e il Creatore.
“Quando un uomo ha grossi problemi – diceva Feodor Dostoevskij – dovrebbe rivolgersi a un bambino; sono loro, in un modo o nell’altro, a possedere il sogno e la libertà”.

Il libro: Il piccolo principe, di Antoine de Saint-Exupéry  
 

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