Sono io l’untore

Autore: Riccardo Zerbetto

 Sono io l’untore Non è una provocazione. Potrebbe essere vero: ho avuto un periodo di indomabile tosse secca, anche se in assenza di temperatura (che non ho tuttavia misurato) e sensazione di spossatezza, di …vulnerabilità. A inizio dicembre quando lo tzunami mediatico sulla pandemia era al suo inizio. Ma mi recai, nel dubbio, a chiedere un tampone ad un importante centro diagnostico di Milano. Mi fu risposto che non era possibile e che avrei dovuto rivolgermi all’ospedale Sacco, unico abilitato a farlo ma … a condizione di affrontare una fila chilometrica con il rischio di ricevere un rifiuto in mancanza di sintomi già evidenti di infezione. Ho desistito ma mi resta il dubbio … che si è fatto angoscioso avendo passato “in quarantena” 15 giorni con il mio amato nipotino e mia moglie in montagna per consentire a mia figlia-medico di lavorare in ospedale. In montagna, lontani dalla metropoli oggi “appestata” come nessuna città del pianeta, ci si sente al sicuro ma angosciato dalla domanda “e se il nemico fosse nascosto “dentro” di me” anziché “fuori” come tutti siamo portati istintivamente a sospettare? E se fossi io l’untore che, come il primo medico di Wuhan che infetto mori insieme a tutta la sua famiglia? A che serve chiuderci in casa, magari anche piccola e impegnata di virus per un inevitabile starnuto anche se ad una distanza di oltre un metro e dopo aver toccato le maniglie del bagno, o non aver resistito agli assalti di mio nipote che ama arrampicarsi su di me per allenarsi nel climbing ?

Siamo tutti coinvolti nel gioco a quiz del secolo: sono stati i pipistrelli cinesi, i soldati americani o qualche agente di commercio brianzolo a gettare il mozzicone virale scatenando un incendio inarrestabile nel pianeta? Ma … qualche che sia l’origine della pandemia, nel cosiddetto “qu ed ora” “sono io o tu il veicolo di questo morbo” che può portare ad una terribile morte per soffocamento? “vedete la pagliuzza nell’occhio del vicino e non la trave nel vostro” ammonisce il Vangelo. “E se lo avessi proprio io quel virus”, pur essendo stato asintomatico (o “paucisintomatico” come ricordo si dicesse nei miei pregressi studi in medicina) anziché difendermi da chi, senza mascherina, oltrepassa la distanza di sicurezza?

Cerca in te il nemico che cerchi fuori di te” ammonisce Tiresia ad Edipo che vuole salvare Tebe, la sua città, dalla peste ed ha avviato una indagine poliziesca per individuare chi avesse ucciso il vecchio re Laio identificato dall’Oracolo di Delfi come la causa della punizione divina abbattutasi sulla città. Ma Edipo grida al complotto e accusa Tiresia di fare il gioco del genero Creonte per spodestarlo da Tebe. Dopo un travagliato percorso di conoscenza … Edipo si assume la responsabilità (letteralmente:: “abilità a rispondere” ...) dei fatti e accetta di infliggere a se stesso la punizione che aveva sancito per il colpevole.

Su questa “anagnosiris” (termine che Aristotile introduce nella sua Poetica e che possiamo tradurre come “rammemorazione”) Freud desume il paradigma del percorso di crescita e “adultizzazione” che da soggetti inconsapevoli che rimuovono (nell’inconscio) le verità scomode ci può portare ad una condizione più consapevole, adulta corresponsabile del nostro destino personale ma anche del contesto sociale di cui siamo partecipi.

Ma possiamo riscontrare questa grande verità anche nella Genesi, alle stesse origini del pensiero e della riflessione sapienziale sulle vicende umane. Non è già Adamo, primo dei mortali, ad incolpare Eva per aver mangiato il frutto proibito della conoscenza? E non sarà poi Eva ad incolpare il serpente in questo scaricabarile del nostro “peccato originale” che rotola ancora da millenni nelle nostre coscienze?

Ma per tornare a noi … come posso sapere se sono IO “positivo al Coronavirus” se non ho la possibilità di fare un tampone? e … “tamponare” la diffusione dell’epidemia? Gli stessi 40 medici deceduti e i 5.000 “caduti sul fronte” dell’assistenza sanitaria non sono stati essi stessi fonte di contagio nei confronti di pazienti, colleghi e familiari prima di immolare le loro vite come “carne di cannone” esponendosi al virus senza poter sapere in chi si annidava la fonte del contagio?

Mi sono scagliato, con documentazione abbondante e ampiamente disponibile, contro questa dissennata politica della limitazione nell’uso dei tamponi in una pagina FB di gruppo su: Noi ai tempi del Corona virus che viene visitata da circa 2.000 persone che sono nulla rispetto al grido che dovrebbe chiedere una inversione di strategia a chi assume queste decisioni a livello tecnico-politico.

Mi hanno detto che anche nella piccola cittadina di montagna dove vivo attualmente esiste la possibilità di avere un tampone. In fondo i politici, dai regnanti ai governanti di ogni ordine e colore e i vip hanno avuto la possibilità di fare il tampone e di farcelo sapere. Perché noi medici, infermieri, forze dell’ordine, genitori, lavoratori e comuni cittadini NON SIAMO MESSI NELLE CONDIZIONI, ANCHE SE A PAGAMENTO, DI POTER FARE QUESTO TEST? Io cercherò di farlo oggi stesso foss’anche interpellando il sindaco in persona in quanto responsabile primo, per legge, della salute della comunità affidatagli, perché vorrei “partire da me” in prima persona, nel non propagare il contagio a partire dai miei cari con i quali vivo a stretto contatto e “obbligatoriamente”.
Da che mondo è mondo, in tempo di epidemie sono stati creati i “lazzaretti” … termine che ci fa inorridire ma che un malinteso ideale egalitario considera come triste rimedio di altri tempi.

1. Ma se non sposiamo la strategia della immunità di gregge per la quale una epidemia passa da sola dopo aver mietuto con la sua falce di morte i più deboli (diciamo oggi immunodepressi) lasciando in vita coloro che avevano più valide difese immunitarie (e le condizioni di salute, alimentazione e benessere per sostenerle …) che rappresenta una lettura squisitamente darwiniana a sostegno della “legge di sopravvivenza del più forte sul più debole”.

2. Non possiamo che accettare il compromesso di limitare il contagio “segregando” i contagiati da coloro che non lo sono ancora. Ma con una strategia che non si limita a bloccare tutta la società a rintanarsi nelle case senza fornire gli strumenti a chi, all’interno delle stesse case, non vuole contagiare gli stessi familiari. Analogo discorso per i luoghi di lavoro che debbono essere riaperti e coloro che sono immuni dal contagio e vietati, se non all’interno di luoghi sotto controllo, ai contagiati sino a che non siano usciti dal periodo di quarantena. La stessa, in altri termini non può seguire la legge del tutto o nulla”. La quarantena deve essere limitata ai contagiati e non a tutti come si sta facendo ora.

3. Le epidemie rappresentano, nella storia, catastrofi umanitarie che hanno colpito prevalentemente le grandi città (Tebe, Atene, Roma, Milano …). Trovo incongruente inibire l’esodo di cittadini dalle loro metropoli appestate per recarsi alle “seconde case” (per chi può dimostrare di averne) o comunque in luoghi di mare o campagna ma, ancora una volta, avendo il “lasciapassare” di un test “negativo” al contagio con il vantaggio di de-congestionare le metropoli dalla sovrappopolazione e “diluire” da densità demografica nel territorio dove la vita è più salubre (con effetti positivi sul sistema immunitario) è più facile è l’approvvigionamento di cibo e del necessario.
 
E proporrò al sindaco di collaborare con quello di Milano e altre città più “appestate” per predisporre alberghi (nuovi e confortevoli lazzaretti) per ospitare a (prezzi agevolati) cittadini siero-positivi per il periodo di quarantena necessario a non perpetuare il contagio.

In termini “archetipici” si presenta un tema conflittuale tra Dioniso (dio della condivisione, del ri-mescolamento di genere, razza, età e censo sino alla celebrazione della “sacra orgia”) e Apollo (il dio che con i coltello alla mano” come viene presentato da M. Detienne in un suo libro, separa il sano dal malato, il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto e che, non a caso, trafigge con il suo arco d’argento i topi forieri di pestilenze). Pur essendo io un devoto di Dioniso e (e del suo “eterno ritorno” tema oggetto di un convegno a Siracusa l’8 giugno in collegamento con le rappresentazioni tragiche delle Baccanti di Euripide) riconosco che siamo in un tempo in cui invocare Apollo che un frammento orfico definisce “dionisodote” (colui che cura lo stesso Dioniso smembrato dai Titani) allorchè si tratta di far prevalere il principio che divide sulla commistione indifferenziata che unisce se non a livello di condivisione empatica ma che deve astenersi da un contatto che comporti un contagio. Una madre non sarebbe certo amorosa se non sapesse resistere al desiderio di abbracciare il figlio se sapesse di essere infetta.

Evidente il rischio di eccedere poi in una logica esasperatamente apollinea che ha caratterizzato, per inciso, la storia dell’Occidente (come evidenziato acutamente la socio-antropologa Ruth Benedict nei suoi pregevoli studi) e che può avere derive pericolose sotto forma di sovranismo, intolleranza razziale e genocidi culturali.

Si tratta, come insegna la sapienza greca, di trovare un punto di equilibrio tra questi due principi entrambi legittimi ma che debbono trovare un onfalos (un “ombelico”) su cui poter costruire un progetto di società sostenibile. In altre parole … tornare a Delfi che, luogo sacro sia a Dioniso e ad Apollo, rappresenta il simbolo di questa coesistenza, inevitabilmente conflittuale a tratti, ma pur sempre da perseguire, come possibilità di incontro e non solo di scontro.


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