Dimmi come fai shopping, ti dirò chi sei

Autore: Marta Fuscà

Dimmi come fai shopping, ti dirò chi sei “L’abito non fa il monaco”, recita un proverbio che vuole invitarci a diffidare dalle apparenze, non di rado ingannevoli, nel giudicare una persona in base al suo abbigliamento. Quanto riscontriamo questo concetto nella vita di tutti i giorni, soprattutto se ci soffermiamo a guardare il modo in cui una persona veste?
 
In una “società dei consumi e dei consumatori” lo shopping è senz’altro una delle più comuni e usuali attività della vita quotidiana e riguarda tutti, sia in maniera diretta che indiretta: alcuni amano fare shopping, altri lo desiderano. È un piacere per chi lo vuole fare e lo sa affrontare con fantasia, intelligenza, metodo; viceversa diventa noioso, stressante ed anche antieconomico per chi non lo apprezza.
 
Se lo shopping viene vissuto come mezzo per provare uno stato di benessere, valorizza l’individuo, lo fa vivere, pensare, inventare, apprende. Lo shopping così inteso porta alla persona gioia, piacere umano e piacere estetico: si apprezza il bello, il buono, ciò che è utile e regala dignità. Con lo shopping si va alla ricerca di soddisfazione, gratificazione, funzionalità, stile di vita; andare per vetrine e negozi diventa un divertimento, un modo di sognare, ma anche un’esigenza, talvolta un modo per allontanare i problemi della quotidianità.
 
Sappiamo che fare shopping – e quindi scegliere l’abito che più fa per noi – qualifica il nostro modo di essere e dell’unicità incarnata: il vestito come confine tra l’essere ed il mostrarsi.
 
Se ci riferiamo a noi stessi, l’abito che più ci appartiene spesso è quello che aderisce al meglio al nostro corpo ed al pensiero che abbiamo su di esso. Si crea una sorta di gioco tra due polarità: mostro/non mostro; mi snellisce/ mi ingrassa; mi piaccio/ non mi piaccio; è adatto (per me) a quella circostanza o non è adatto; e via dicendo. Se invece rimaniamo sul senso che il nostro modo di vestirci vuole rimandare all’altro, scopriamo che è la società a stabilire i canoni dell’esposizione sociale, aprendo in questo modo la possibilità fisiologica della trasgressione che può diventare un ingrediente per nutrire l’eros. In questo senso in ogni vivere insieme, la tensione intimo-sociale è sempre carica di vibrazioni che si inscrivono nel vestito.
 
Quindi “il vestirsi” tra essere o apparire? Giovanni Salonia, nel suo libro “Sulla felicità e dintorni, tra corpo, parola e tempo”, ci dice che il vestito perde la sua funzione – si separa dall’esserci – sia quando diventa tentativo (vano) di nascondere la vergogna ed il limite, sia quando diventa valore in se stesso, negando l’interiorità che è sempre corporea. La corporeità non abitata dall’interiorità si consuma unicamente nel registro visivo del mostrarsi e cerca in modo ossessivo – ma vano – di riempire il vuoto attraverso segni (tatuaggi, piercing, ecc.), oppure affida all’esteriorità il compito impossibile di sostituire (di riempire) il vuoto dell’esserci (dipendenza da shopping).

Questa la sfida con la quale deve confrontarsi ogni percorso educativo nella società dell’apparire. I sentieri restano aperti, quale percorreremo per chiudere il cerchio?

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