Capire e riparare la colpa

Autore: Maurizio Bottino

Capire e riparare la colpa Il tema della colpa si presenta in modo molto articolato in quanto riguarda più aspetti della vita di tutte le persone e dell'intera società e ci accompagna, non a caso, sin dai tempi di Adamo ed Eva.
 
Della colpa se ne può parlare partendo da angolazioni e intenti diversi: avremo chiavi di lettura derivanti dall'applicazione del Codice penale, da interpretazioni di carattere psicologico, da analisi sociologiche od altro spesso con asserti e considerazioni divergenti.
 
In maniera semplice, ma efficace, la dottrina cattolica evidenzia che affinché si possa attribuire, a colui che compie quella specifica azione, una colpa grave (cd. peccato mortale) devono concorrere tre condizioni:
- la materia grave: azione di certa gravità e come tale riconosciuta da un contesto sociale privo di pregiudizievoli o errate valutazioni;
- la piena consapevolezza: l’agente deve conoscere le conseguenze del suo gesto;
- il deliberato consenso: l’agente aderisce a compiere l’azione.
 
Ecco allora che alcune azioni presupposte gravi non possono essere ascritte a colpe per l'assenza stessa della gravità o perché, anche se causano un danno o, addirittura, la morte di qualcuno, erano inevitabili. Alcuni esempi:
- occuparsi di erbologia nel tardo medioevo o nel rinascmento faceva ritenere le "streghe"  in combutta con il demonio;
- asserire che la terra non fosse al centro dell'universo veniva considerata una bestemmia; 
- lo scalatore che, in cordata, a fronte della possibile rottura della corda per il peso eccessivo, per salvare se stesso o altri la taglia la corda;
- la donna che, a seguito di continue violenze ed esasperata, eccede nella difesa ed uccide il partner;
- il tiratore scelto della polizia che per salvare gli ostaggi spara ad un terrorista;
- un ufficiale che, in assenza di informazioni certe, per difendere il proprio plotone, causa la morte di civili.
 
Questi ed altri sono esempi, anche estremi, che andrebbero commentati e visitati nello specifico, ma vogliono soltanto evidenziare che, spesso, non è facile esprimere giudizi validi su situazioni complesse quando sono in ballo fatti, emozioni e sensazioni che orbitano intorno alla colpa, alla responsabilità, alla volontarietà dell’atto. Ma anche intorno alla visione della realtà, dei valori e delle credenze di quel contesto e così via.
 
Agire il male a diretto proprio vantaggio, tipico di situazioni e contesti delinquenziali, di fatto, interessa una piccola percentuale del contesto sociale: sono pochi i delinquenti rispetto alla "brava gente".
 
Se assumiamo che la colpa sia un’azione deliberata e consapevole con la quale si intende agire in maniera malevola ai danni di qualcuno, dobbiamo convenire che tra la "brava gente" dovrebbero essere pochi coloro che, volontariamente, vogliono il male dell’altro. Questo perché l’attitudine al male prefigura una sorta di atteggiamento permanentemente rivolto al male che necessita di un progetto nefasto che sarebbe difficile da perseguire.
 
Allora perché le persone agiscono azioni dannose verso altri? Perché ci si fa del male reciprocamente?
 
Perché siamo "cattivi" (captivi > prigionieri): non c'è consapevolezza di cosa si agita dentro di noi né delle conseguenze sugli altri delle nostre azioni. Siamo prigionieri dentro una gabbia che é il risultato di processi educativi disfunzionali, esempi negativi, ignoranza del significato di alcuni valori, cattiva educazione (non solo quella formale)... e non sempre siamo disponibili ad una dolorosa revisione di chi siamo, di dove stiamo andando e della necessità di nuovi pensieri.
 
Quanto male agiscono, senza rendersene conto, persone che sono “strutturalmente" invidiose o presuntuose o permalose a causa di una storia evolutiva in cui sono state vittime di esclusione o non hanno goduto di cure e attenzioni primarie o hanno dovuto affrontare la crescita da sole costituendo dentro se stesse visioni della realtà non congrue?
 
Questa condizione di inconsapevolezza, che diminuisce la responsabilità delle azioni commesse (ma non certo il male ed il dolore provocato), merita alcune riflessioni sull’interazione tra la nostra storia antica e su come questa agisca al presente.
 
Ancora. Il più delle volte coloro che agiscono azioni malevole “si sentono in colpa”, ma l’eventuale elaborazione di questo senso di colpa (se possibile) non sana lo stato di disagio interno perché la persona deve fare i conti con qualcosa che non è esclusivo appannaggio della parte psichica, ma fa parte della ben più ampia sfera esistenziale.
 
Il senso di colpa è legato all’inadeguatezza (presunta o reale) del nostro agire rispetto a quello che riteniamo dover essere l’azione congrua per quella situazione. Ma, di fatto, il senso di colpa può diventare una fuga dalla colpa reale che ha una sola strada elaborativa: l’assunzione della responsabilità di quanto agito.
 
Tale passaggio necessita di parametri chiari necessari ad una autovalutazione del proprio agire: i valori. La nostra azione viene giudicata alla luce di quali valori? E i valori a cui aderiamo sono stati assunti passivamente o sono frutto di osservazioni ed elaborazioni critiche? E questi valori ammettono univoche interpretazioni o aprono la stada ad un più ampio scenario evolutivo?
 
Per ultimo, ma non da ultimo, prima o poi si dovrà parlare di sano rimorso (ben diverso dal senso di colpa) e chiara riparazione (azioni reali agite a favore del danneggiato) laddove ci si rendesse conto che la nostra azione ha causato un danno, o peggio è stata consapevolmente malevola.

Questo e altro saranno i temi dei prossimi articoli.

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