Violenza domestica: come riconoscerla e come spezzare il vortice che s'innesca

Autore: Sonia Allegro

Violenza domestica: come riconoscerla e come spezzare il vortice che s'innesca “Violenza domestica”. Quante volte abbiamo sentito questa espressione negli ultimi anni? Molti di voi penseranno che ormai sia un argomento “cult”, ma è davvero così?
Volendo fare chiarezza possiamo dire che l’ambito d’intervento sia relativamente giovane, ma la tematica non lo è affatto. La violenza infatti è sempre esistita ma, oggi più del passato, viene percepita come un problema e quindi affrontata.

In particolare la violenza contro le donne ha radici antichissime negli atteggiamenti culturali. Il rapporto uomo-donna ha da sempre esplicitato schemi in cui da un lato si coglievano caratteristiche quali superiorità, attività e potere e dall’altro inferiorità, passività e obbedienza.
Già ai tempi di Platone e Aristotele si delineava la donna “per natura più debole dell’uomo” dato che “il corpo femminile è incompleto, menomato” e come tale la sottomissione femminile all’uomo veniva autorizzata.
In età romana la donna veniva vista esclusivamente con una funzione procreativa, a tal punto che, se risultava sterile, poteva venir ripudiata dal marito e dal resto della famiglia.

Nelle epoche seguenti la considerazione della donna non variò di molto, ma si arricchì di divieti (es. il cristianesimo ne vietò le funzioni sacerdotali, nel medioevo potere e patrimonio venivano ereditati solo per discendenza maschile, ecc.).

Per fortuna esisteva qualche rara eccezione: nell’antica Babilonia e nell’antico Egitto le donne godevano dei diritti di proprietà e a Sparta amministravano l’economia. Questo ci dovrebbe portare ad una riflessione: la donna è davvero per natura più debole dell’uomo?

Forse la natura in questo caso non c’entra nulla. Ne consegue che possa essere un problema strutturale della società. È la società stessa, infatti, che produce una differenza di genere, determinando un problema di salute pubblica.

Furono i movimenti femministi degli anni 70 a portare alla luce tale dinamica e la violenza contro le donne si trasformò, di fatto, da questione privata ad un problema sociale. Si ruppe, così, il muro di silenzio che l’idea di famiglia, fino a quel momento, aveva nascosto dietro una potente barriera.

Ma ritorniamo al concetto di violenza domestica e dopo questa importante premessa proviamo a comprenderla meglio. Per prima cosa essa è un Reato e come tale perseguibile dalla legge.
L’articolo 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne dell’ONU (1993) definisce con tale espressione “qualsiasi atto di violenza fondata sul genere che comporti, o abbia probabilità di comportare, sofferenze o danni fisici, sessuali o mentali per le donne, inclusi le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitriale della libertà, sia che si verifichi nella sfera pubblica sia in quella privata”.

La violenza domestica non è da intendersi solo come fisica, ma anche psicologica, sessuale ed economica. Al di sotto di tutte queste forme di violenza si delinea il riproporsi di quel vortice che Lenore Walker, psicologa americana, definì nel 1979, con il nome di ciclo della violenza. Essa mise in evidenza come la violenza domestica avvenga all’interno di una relazione che dovrebbe essere di amore, di cura e di fiducia. Proprio per questo motivo diventa molto difficile comprenderne l’inizio, ma è più comprensibile pensarla come “un progressivo e rovinoso vortice in cui la donna viene inghiottita dalla violenza continuativa, sistematica e quindi ciclica da parte del partner”.

Le tre fasi, delineate dall’autrice, tendono a ripetersi con continuità.

Prima fase: la crescita della tensione. Una tensione che solitamente ha esordio come una violenza verbale, quindi più subdola. L’uomo mostra un crescente nervosismo che lo porta ad essere perennemente irritato, generando confusione nella compagna. La donna, che avverte questa tensione, mette in atto una serie di strategie con la finalità principale di “tenere calmo l’uomo”. Tutto è focalizzato su di lui, pur di evitare l’abbandono tanto temuto dalla partner.

Seconda fase: la violenza viene espressa. In questa fase l’uomo perde il controllo, che potrebbe in un primo momento essere agita sugli oggetti e arrivando, in un secondo momento, alla violenza fisica. In questa fase si delinea il dominio e la prevaricazione dell’uomo sulla donna.

Terza fase: “la luna di miele” o una finta riappacificazione. Dopo la violenza agita, l’uomo mette in atto tutta una serie di comportamenti riparatori con l’intento di cancellare o minimizzare la violenza che la donna ha subito. È la fase in cui la compagna ci crede e perdona; in seguito ad un rinforzo positivo spesso si decide di tornare ad investire nuovamente nella relazione. Proprio in questa fase, infatti, le donne che avevano trovato il coraggio di uscire da una relazione malata si trovano a ritirare le denunce o ad abbandonare un percorso che avevano iniziato per uscire dalla violenza.
Il fatto che esso sia stato definito ciclicamente intende proprio il ripetersi, spesso in tempi sempre più brevi rispetto all’esordio, con conseguenze sempre più devastanti. Ad ogni episodio di maltrattamento si genera maggiore fragilità nella donna. Ad una diminuzione della capacità di reazione ne consegue l’aumento del livello di tolleranza della violenza. Questo ciclo è uno stress emotivo continuo che porta al disorientamento e alla confusione e ad un abbassamento notevole del benessere psicofisico della donna.

Per gli “addetti ai lavori” risulta fondamentale riuscire a conoscere le fasi che si innescano nella violenza domestica perché permette di discriminare la relazione maltrattante da una relazione conflittuale. I meccanismi che ritroviamo, infatti, sono differenti e riconoscibili in tre step.

L’inizio è segnato dall’intimidazione in cui la donna viene spaventata con comportamenti imprevedibili, minacce e violenza verso oggetti. L’uomo si avvale di denigrazioni, umiliazioni che intaccano l’autostima della compagna. In questo modo la donna inizia a distorcere la realtà, a percepire di meritarsi tutto ciò, per qualche strano motivo.

Il meccanismo successivo che si attiva è l’isolamento con l’intento di allontanare le figure di riferimento, comportando spesso una rinuncia, da parte della donna, al proprio lavoro e, di conseguenza, alla propria indipendenza. Il pensiero inconscio che si genera nell’uomo violento è semplice, ma molto efficace: se la compagna rimarrà sola, isolata dal contesto relazionale e l’unico riferimento permarrà il suo uomo, essa sarà maggiormente controllabile.

La violenza psicologica progressivamente va ad attaccare l‘identità riducendo drasticamente la stima di sé. La donna si sentirà inadeguata, debole, incapace, arriverà a pensare di aver causato lei stessa i maltrattamenti e di meritarseli.

Come è possibile in seguito ad un’esperienza traumatica riuscire a ritornare ad avere fiducia attraverso la psicoterapia?
“Di relazioni ci si ammala e di relazioni si guarisce” (Patrizia Adami Rock).

In queste parole credo ci sia l’essenza della psicoterapia: attraverso la relazione terapeutica la donna maltrattata riuscirà a recuperare il senso di sicurezza, di controllo sulla propria vita, di fiducia nell’altro e a riprendere possesso delle risorse che precedentemente aveva abbandonato. Perché questo possa avvenire, il professionista dovrà riuscire a ricostruire insieme alla sua paziente la storia di maltrattamento per comportare una decostruzione del sistema di dominazione-sottomissione creatosi e delinearsi come un “testimone” che solidalizza con la donna.

La violenza che la donna ha subito dovrà essere dominata da lei stessa: dovrà riuscire a riconoscersi in un primo momento come vittima e, in un secondo momento, a percepirsi come soggetto con capacità decisionale, superando il senso di vergogna che il maltrattamento ha insinuato. In questo modo la spirale della violenza potrà essere interrotta.


Categorie correlate