TREDICI: la serie tv di Netflix che spopola fra i teenegers

Autore: Silvia lo Vetere

TREDICI: la serie tv di Netflix che spopola fra i teenegers La recente serie televisiva di Netflix, 13 Reasons Why, sta avendo molto successo fra gli adolescenti. Trovo non sia dal punto di vista della realizzazione filmica un gran che, a volte forse arriva anche ad essere un po’ noiosa.
Ha il grande pregio però di trattare un tema così difficile e angosciante come quello del suicidio di un’adolescente, ma anche di un disagio giovanile più generale. Un buon punto di partenza, a mio avviso, per discutere.
Hanna Baker è un’adolescente di 17 anni, come tante altre; intelligente, carina, alle prese come tutti i coetanei, con i turbamenti e le domande di un’età anche affascinante, ma non sempre facile.
Arriva al suo primo appuntamento amoroso, piena di emozione e di attese.
Il luogo, un piccolo parco giochi, le sembra magico; scherza, gioca, amoreggia, con il lui tanto desiderato, quando il ragazzo le scatta con il cellulare una foto, mentre scende dallo scivolo. Non sarà però, in quello scatto, solo la sua gioia a rimanere impressa, ma anche il suo slip.
Poco dopo la foto è in rete.
La vergogna, più che comprensibilmente acuta, diventerà giorno per giorno sempre più grande. Hanna si chiude, e diviene via via oggetto di situazioni sempre più drammatiche, compresa quella di una violenza sessuale, fino ad arrivare al tragico epilogo in cui si toglie la vita.
Lascerà un regalo dopo la sua morte: una cassetta audio registrata dedicata a ogni persona che sente coinvolta e colpevole nella sua decisione finale.
Saranno proprio queste cassette, episodio dopo episodio, a condurci dentro gli avvenimenti e ai personaggi.
Fin qui una brevissima sintesi.
Quello che vorrei ora discutere riguarda, a mio avviso, nello sviluppo della storia, l’assenza di qualcosa di molto importante: una sorta, potrei dire, di una cassetta auto dedicata.
Una cassetta che presenti insieme alle responsabilità degli altri, alcune davvero molto  gravi,  qualche  domanda  anche  sulla  possibile  parte  di  responsabilità personale. Quella che quasi sempre tutti noi abbiamo in quanto ci accade.
 
Vorrei allora qui provare a dare qualche spunto per questa cassetta non registrata.
 
Hanna   ci   viene   presentata   come   una   normale   adolescente.   Una   ragazza diciassettenne con le domande e le incertezze della sua età. Nulla di lei ce la descrive come patologicamente depressa o in altro modo psicologicamente malata o con una storia alle spalle particolare.
La vediamo però, sin dall’inizio, eternamente incerta, confusa, in modo, a mio avviso, eccessivo. Quasi anche nell’attribuire dentro di sé, la meritata importanza a quanto prova e al diritto di combattere per difenderlo fino in fondo. Ci appare come sempre imballata, mai decisa fino in fondo a trovare strade, certo difficili e non immediate, ma possibili, di far sentire con forza ed efficacia, il suo  più che giustificato grido di aiuto.

Le circostanze certo non la aiutano: la cotta iniziale per il ragazzo sbagliato, un ambiente scolastico molto difficile, l’etichetta di facile che i coetanei le appioppano dopo  la  sua  immagine  in  rete.  Non  è  semplice,  tutt’altro,  soprattutto  per un’adolescente già alle prese sulle tante domande su di sé e in quanto tale, particolarmente attento allo sguardo che suscita nel mondo.
Lei però sceglie la strada del silenzio, da subito.

Eppure c’ğ più di uno spiraglio: pensiamo ad esempio a Clay, il ragazzo di cui si innamora davvero; alla ragazza punk, a Tony, il saggio. Fra gli adulti sicuramente ai suoi genitori: non perfetti come tutti, ma affettuosi, amorevoli e disponibili.
Non sceglie mai nessuno fino in fondo.

Sicuramente   la   blocca   la   vergogna,   un’immagine   di   sé   che   ormai   sente irrimediabilmente svilita, ma a mio avviso non solo. Ci sono anche un mancato coraggio e una scarsa reazione a ciž che sente e che le accade, un po’ eccessive, e visibili sin dall’inizio. Il coraggio, proprio perché le succedono cose ingiuste e via via più gravi, di trovare strade per non essere sola innanzitutto.

Per dare voce e riscatto a quanto sente e subisce, a partire dall’episodio iniziale della foto. Innanzitutto intercettando e facendo appello alle persone che le sarebbero state sicuramente accanto.
Non lo fa. Ci appare al contrario sempre incerta e imballata su tutto, quasi anche sulla giustizia di chiedere giustizia.
 
La seconda cosa che colpisce, osservando Hanna è una sorta di pretesa di fondo che gli altri, solo loro, capiscano.
 
Lo dicono le sue cassette: sicuramente le responsabilità delle persone che cita ci sono, alcune gravissime.
Con quel regalo post mortem punisce tutti a dovere.

Ma lei è stata in grado mai di capire chi lo meritava e che sarebbe stato in grado di apprezzare? Ad esempio Clay, che lascia nel mezzo della scena amorosa e che accusa poi di essersene andato.
Certo, ha motivi più che validi per non fidarsi di nessuno, ma ancora una volta sembra fare di tutta l’erba un fascio e scegliere di non farsi capire. Quasi l’essere capita fosse una cosa, magica, dovuta e unilaterale.

Una sorta di auto centratura e forse una scarsa capacità di selezione che alla fine toglie a tutti ogni possibilità, buoni e cattivi.
 
Il terzo aspetto che colpisce molto è lo spazio nullo che si osserva rivolto ai suoi genitori.
Come se non fosse stato mai presente nella sua mente che sì, siamo responsabili di noi stessi e delle decisioni che prendiamo, ma lo siamo anche delle conseguenze su chi amiamo.
Magari Hanna si sarebbe tolta la vita lo stesso.

Quanto però ha potuto mettere a fuoco e tenere in considerazione oltre al suo dolore, anche quello, direi inaffrontabile, che avrebbe lasciato dietro di sé? Proprio a partire dai suoi genitori?

Allora proprio su questa cassetta non scritta, forse noi adulti dobbiamo riflettere. Pensare anche a come, forse potere fare meglio la nostra parte.
A partire da questa domanda: aiutiamo abbastanza i nostri figli, sin dalla tenera età, a imparare a fare i conti con le cose difficili della vita?

O piuttosto con la politica estremizzata di fare in modo che sempre si esprimano, di agevolare desideri e aspirazioni magari chiedendo loro troppo poco in cambio in termini di impegno, di responsabilità e di dovere, contribuiamo a renderli troppo fragili? Troppo autocentrati, meno capaci di selezionare e di utilizzare possibili compagni di viaggio? Soprattutto meno coraggiosi nello sperimentarsi in ogni via che, pur con fatica, con paura e anche con alcuni insuccessi, conduca comunque a difendere emozioni e pensieri sentiti importanti? Di adoperarsi e di lottare con forza e  convinzione  per  ottenere  riconoscimento,  soprattutto  quando  si  subisce ingiustizia? Anche a costo di non piacere a tutti?
 
Spetta sicuramente a tutti noi adulti il compito di stare all’occhio. Di non banalizzare mai le emozioni dei nostri figli, ancor più se adolescenti. Di stabilire una alleanza più solida con diversi interlocutori. Di diventare ancora più consapevoli che, proprio perché una madre, un padre, un insegnante o un allenatore hanno sempre un vertice diverso di osservazione, il punto di vista di ognuno può essere davvero prezioso.
  Però non basta. Sta anche a noi, forse con urgenza ancora maggiore, agevolare anche un’educazione il più possibile precoce agli affetti, soprattutto di quelli difficili. Abituare di più i nostri figli alla loro gestione, alla loro protezione, anche a costo, così facendo, di non avere il consenso e il riconoscimento di tutti.
L’esatto contrario della resa.


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