Storie di vita e prodotti artistici

Autore: Ruggero Sicurelli

Storie di vita e prodotti artistici In un dialogo con Teeteto, Socrate afferma di essere un ostetrico. In quanto tale egli era chiamato a riportare alla vita la ‘verità’ intima di quanti si affidavano a lui. La sua pedagogia consisteva nel ripulire l’anima dei suoi discepoli dalle scorie delle false verità e dalle certezze assurde. Il suo compito era quello di far scaturire la verità dall’anima dei suoi referenti e lo faceva con un dialogo serrato teso a far emergere gli errori di pensiero dei propri discepoli, per poi, diremo oggi, falsificarli.
Socrate enfatizzava il suo ruolo di ostetrico ricordando che egli stesso era figlio di una levatrice. Nell’occasione si dimenticava però di menzionare il padre, il quale pare fosse uno scultore apprezzabile. Ebbene, a partire da Michelangelo, sappiamo che la funzione dello scultore è quella del cavar fuori la configurazione artistica incistata nella pietra. In altri termini, di farla partorire. Ciò succede attraverso una pratica di sottrazione dell’eccedente, che progressivamente fa nascere la figura imprigionata nell’inerte scelto dall’artista.
La passione per l’arte coltivata sin dall’infanzia dal grande filosofo greco potrebbe essere stata garantita dal padre a sua volta ostetrico. Socrate, come ci riferisce Senofonte, faceva presente agli scultori e ai pittori che, per ritrarre in modo adeguato l’uomo, non dovevano limitarsi  a  ritrarne  il  corpo,  ma  dovevano  giungere  a  rappresentarne  l’anima,  ad abbozzarne il profilo della fisionomia. Questo implica che il “conosci te stesso” di Socrate, almeno che non si tratti di un autoritratto, deve essere dall’artista rovesciato nello speculare “conosci l’altro”, vale a dire la persona che hai scelto di raffigurare.

Il fare pedagogico dell’ostetrico Socrate ci interessa in questa sede perché insiste sul ruolo della generatività. In riferimento all’agire artistico il concetto in discussione coincide con quello di creatività. L’approccio patografico all’opera d’arte, inaugurato da S. Freud, scaturisce da simili premesse e ben si armonizza con quelle che seguono. C’è da aggiungere, che il lavoro artistico rilevante da un punto di vista psicoanalitico non può essere gratuito né indolore, ma esposto al dramma del pronunciamento rispetto a ciò che angustia l’artista. L’agire menzionato da Socrate implica una reazione prossima alla catarsi. Si tratta di una risposta liberatoria, che si manifesta nel momento in cui riusciamo a superare i nostri blocchi emotivi per raccontarci con passione agli altri. Ai suoi tempi, il teatro era uno dei luoghi abreativi più efficaci: attori e spettatori, uniti da una ragnatela di identificazioni reciproche, avevano nella circostanza l’opportunità di ritornare a casa con un’inedita serenità nel cuore.

E’ un po’ quello che ci succede quando abbiamo in sorte l’opportunità di ammirare delle opere d’arte capaci di mettere a rumore la nostra tranquillità interiore, mettendoci di fronte a quanto prodotto da un artista che ha affrontato dei problemi simili ai nostri, arrivando a provare le nostre stesse emozioni. Nei casi migliori, si manifesta in noi una sorta d’effetto ‘diapason’, in forza al quale siamo messi nella condizione di approfittare del lavoro psicologico ed espressivo dell’artista per sanare almeno in parte i nostri conflitti interiori.

Simili premesse filosofiche sono ben surrogate nel concetto “moto dell’anima” elaborato da Leonardo da Vinci. Freud lo fa implicitamente proprio e lo pone alla base delle sue analisi patografiche, arrivando ad alludere al fatto che un’opera d’arte è tale nella misura in cui racchiude in sé una verità emozionale profonda. Questa a sua volta scaturirebbe da urgenze pulsionali diverse, afferenti alla polarità governata da Eros e da Thanatos. Si tratta di presenze che hanno il potere di generare delle configurazioni conflittuali che trovano in parte risoluzione nell’opera d’arte. Da qui la funzione liberatoria della stessa.

Non tutte le opere d’arte degne di questo nome sono il prodotto di un ‘travaglio’ governato dalla logica della sofferenza e da quella della rigenerazione, poiché vi è una produzione artistica psicologicamente più ‘leggera’ e posta in modo prevalente al servizio del piacere estetico. In ogni caso, allo psicoanalista dell’arte è proprio questa produzione artistica che sta al vertice dei suoi interessi. Per lui, gli artisti più affascinanti sono quelli che sono riusciti grazie all’arte ad evitare, almeno per un po’, la tragedia della follia o della morte per regalare ai loro referenti delle suggestioni pittoriche ad elevata forza identificativa.

La rivisitazione delle più belle pagine della storia dell’arte ci permette di mettere a fuoco una nutrita schiera di artisti capaci di stimolare la curiosità degli psicologi. In queste pagine guarderemo a tre straordinari protagonisti, che sono nel cuore di un numero crescente di persone che dichiarano di amare l’arte. Si tratta di Max Ernst, di Salvador Dalì e di Vincent Van Gogh. In ognuno di questi, i conflitti psicologici infantili sono stati rilevanti come premessa al loro lavoro artistico.

 
2 Giochi immaginativi infantili e attività artistica in Max Ernst

In una conferenza famosa sull’arte moderna, Paul Klee ha avuto modo di insistere sul rapporto esistente fra l’esperienza del gioco del bambino e quella espressiva del pittore moderno. In quell’occasione, egli vide nel pittore un creatore di strutture traslate, capace di trasferire l’elemento ludico in un ordine superiore: quello artistico.

Il fascino delle espressioni grafiche dei bambini e quelle proprie dei ‘primitivi’ seduceva numerosi artisti operanti in Europa all’inizio del secolo scorso. Le suggestioni infantili facevano spesso capolino negli splendidi acquerelli del nostro artista. La sua poetica era in questo senso convincente ed accattivante.
La psicoanalisi dell’arte si dimostra attenta a simili recuperi infantili, i quali spostano l’attenzione dal “qui e ora” dell’esecuzione pittorica alla sua genesi. In questo senso troveremo degli interessanti spunti rivisitando gli scritti e le tele di uno straordinario pittore surrealista: Max Ernst. Nell’occasione, vedremo come la sua creativa messa a punto di inediti strumenti espressivi affondi a sua volta le radici in formule immaginative ed oniriche sature di riverberi infantili.

Freud amava dire che “il bambino è padre dell’uomo” ed invitava i critici di espressione psicoanalitica a guardare alle precoci vicende psicologiche degli artisti da loro esaminati. A suo avviso, il complesso edipico andava preso in considerazione per il suo essere una delle concause più potenti della creatività artistica. Pensando a ciò, proporremo in queste pagine alcuni passaggi ‘edipici’ presenti negli scritti di un pittore straordinario: Vincent van Gogh.

A prestare attenzione ai suoi lavori sono soprattutto i clinici interessati al rapporto fra creatività artistica e follia. Nel nostro contributo guarderemo agli scritti dell’autore, i quali esprimono  una  cristallina  onestà  intellettuale  ed  una  elevata  coscienza  dei  conflitti interessanti il suo rapporto con il padre.

La  tela  del  pittore,  di  qualsivoglia  pittore,  ospita  la  traduzione  artistica  degli  esiti sublimatori delle sue pulsioni più ineludibili. Fra questa primeggia l’angoscia di morte, rispetto alla quale trasudano molti capolavori che hanno dato respiro ad alcune fra le più belle pagine della storia dell’arte. Non è facile, semmai sia possibile, scindere nettamente le spinte sublimatorie generate da Eros e da Thanatos. Questa verità è particolarmente pregnante se si considerano le opere di un altro fecondo e originale pittore surrealista: Salvador Dalì.

Anche in relazione all’artista catalano, cercheremo di rivisitare i suoi contributi più significativi in relazione alla variabile ‘sogno’, all’angoscia di morte e a quella riferibile alla sessualità. Lo faremo cercando di dimostrare quanto i conflitti psicologici infantili vengano dall’autore stesso riconosciuti alla base del suo operare artistico.

In ogni istante, se ne renda conto o meno, l’uomo pensa a qualcosa. Molto del suo benessere psicologico dipende da cosa e come pensa. A volte subiamo l’irruzione nella nostra mente di stimoli che sollecitano il nostro fantasticare verso spiagge immaginative impreviste. In altre circostanze siamo noi che decidiamo sul nostro destino ideativo, regolamentandone il flusso.

Ogni bambino, soprattutto quando è esposto alle insidie del patimento e della noia, tende a mettere la propria  fantasia al  servizio di  un moto autoriabilitativo capace  di  fargli assaporare meglio la quotidianità. I suoi giochi ideativi sono in grado di proiettarlo in mondi ‘impossibili’ rispetto ai quali egli è insieme un attento osservatore e un protagonista a tutto tondo.

Nei loro sogni ad occhi aperti e nei loro giochi, i bambini diventano i registi di fantastiche sceneggiature. Essi si creano, distruggono e ricreano scenari sempre nuovi che tradiscono la verità intima del loro mondo interiore. Guardare all’agire dei bambini è, pertanto, quanto mai istruttivo per comprendere meglio i prodotti pittorici di molti artisti, a partire da quelli proposti in questa sede.

Uno dei problemi che ci sta a cuore è quello della possibile esistenza di un legame forte fra l’attività ludico-fantastica del bambino e la creatività artistica adulta. L’autore scelto per difendere questa ipotesi è Max Ernst. Vedremo come il suo allenamento a convivere con fantasie e allucinazioni suggestive lo abbia non solo spinto a confidare sull’importanza abreativa del sogno, ma a guardare alla psicoanalisi come ad uno strumento di supporto teorico al proprio procedere artistico. Le stesse tecniche da lui inventate, sono state prodotte in modo giocoso all’insegna di un progetto di sollecitazione onirica.

In Europa, i primi decenni del nostro secolo sono stati caratterizzati da un convulsivo succedersi di rivoluzioni artistiche. Queste si sono verificate in un contesto culturale caratterizzato a sua volta da dei cambiamenti radicali. Fra questi va segnalata la nascita della psicoanalisi, la quale ci ha posto di fronte all’immagine di un uomo nuovo, di una persona che, con la scoperta dell’inconscio, non poteva più pretendere di essere in ogni istante del tutto presente a se stessa e razionalmente padrona del proprio destino. In sua vece, nasce l’immagine di una presenza inedita, che, in alcune situazioni, si trova agita da forze incontrollabili scaturenti dal proprio mondo interiore.

Questi sommovimenti interni possono avere un’estrema forza rigeneratrice, la quale, se ben   sfruttata,   può   consolidarsi   in   eccezionali   atti   creativi.   Il   problema   consiste nell’imbrigliare adeguatamente queste energie in modo da canalizzarle nella direzione desiderata. Nella pratica psicoanalitica, questa operazione avviene attraverso una parola che si esprime all’insegna di un atto interpretativo diretto a svelare ciò che la rimozione ha nascosto. Nell’ambito artistico il problema è stato affrontato in due modi diversi.

Da un lato, si è provveduto a dare voce all’inconscio lasciando, in vari modi, via libera alla fantasia. Fra questi va segnalata la ricerca di provvisori stati alterati di coscienza acquisibili grazie al ricorso a sostanze quali l’alcool e altre droghe. Dall’altro si è proceduto nel ricercare mezzi espressivi appositamente ambigui in modo da dare spazio alle sollecitazioni proiettive le più diverse.

In questa sede ci interessano soprattutto queste ultime. La corrente artistica che meglio ha dissodato questo terreno è stata quella surrealistica. Nel nostro caso faremo riferimento ad uno dei suoi più originali rappresentanti: Max Ernst. Dai suoi scritti scopriamo che l’iniziazione pittorica passa attraverso la figura del padre. A tre anni, Max accompagnò il genitore in un bosco dove questi dipinse un’opera denominata “Solitudine”. Si trattò di un acquerello fantastico nel quale è inclusa la figura di un eremita in un faggeto.

Il bosco, quale intrigo simbolico, suscitava nel nostro piccolo protagonista una reazione ambivalente. Infatti, da un lato, la sua fantasia lo portava ad immaginare delle meravigliose presenze, mentre, dall’altro, la sua immaginazione lo spingeva a vedersela con delle entità oscure e terrorizzanti. Da adulto, Ernst recupererà questo e altri vissuti ‘silvestri’ in alcune sue tele richiamanti in primo piano la presenza della foresta.

Le rivisitazioni dei vissuti ‘forestali’ da parte di Ernst chiamano in causa un protagonista che vive l’esperienza percettiva in modo trasognante. Nella circostanza fantasia e realtà si fondono insieme, creando un tessuto a trame sfumate. Il tutto in un contesto nel quale è presente un tessitore che punta molto sull’immaginario per rispondere alle sfide adattive dell’ambiente che lo ospita. L’approccio onirico al reale si è dimostrato per Ernst assai remoto. Sin da piccolo, quindi, egli ha imparato a guardare al mondo con gli occhi della persona allenata a miscelare gli stimoli della realtà esterna con quelli immaginativi. Ciò premesso, è facile comprendere il potere di fascinazione che il volume sull’interpretazione dei sogni di Freud deve aver esercitato in lui.

Rispetto all’attività onirica Ernst aveva delle aspettative catartiche notevoli. Egli credeva fermamente nella “rivoluzione onirica”, nella capacità del sogno di dipanare la matassa del materiale inconscio presente in ognuno di noi. Per questo, da adulto, ha passato parecchie serate a parlare con i suoi amici, fra i quali vanno ricordati Eluard e Breton, di psicoanalisi e della potenza liberatoria dell’attività onirica. I surrealisti in discussione formarono così, per certi  versi,  un  gruppo  autoterapeutico  teso  a  depontenziare  il  rimosso  individuale attraverso il racconto e l’interpretazione dei loro sogni.
Oltre che nelle conversazioni amicali di Max Ernst, il sogno faceva irruzione nelle tele del nostro artista che trovò per breve tempo in Gala un’amante capace di rendergli gioiosa la vita. Gala diverrà poi moglie di Eluard e musa di Salvador Dalì. Molti dei suoi capolavori perfezionati in età adulta non sono che delle rappresentazioni pittoriche dei sogni infantili, ovvero delle sue fervide fantasie.

Molti dei ricordi di Ernst chiamano in causa la foresta. Sull’argomento egli, oltre ad aver dipinto delle meravigliose tele, ha scritto delle pagine stupende. In un suo passaggio si legge: “L’uomo e l’usignolo si trovano nella migliore condizione per lasciarsi andare all’immaginazione: la foresta era la guida perfetta per accedere al sogno”. In questa affermazione è coglibile l’obiettivo della ricerca pittorica del nostro autore, quello di tradurre nella tela il lavoro onirico animato dal proprio inconscio. Quindi, come per Freud il sogno è la strada maestra che porta all’inconscio, così per Ernst lo stesso è il mezzo elettivo per poter accedere alla ‘surrealtà’ nella quale, a suo avviso, sarebbe immersa la nostra esistenza.
 
In merito al tema in discussione, l’autore ci fornisce questa interessante precisazione: “non è il sogno che genera l’immagine, ma viceversa”. Sono quindi le immagini, scaturite nella tela grazie ai suoi straordinari accorgimenti tecnici, che fanno emergere le produzioni allucinatorie da lui tanto ricercate. Da qui la sua determinazione nel ricercare delle tecniche   capaci   di   suggerire   delle   risposte   grafiche   destrutturate   e   aperte all’immaginazione, vale a dire delle configurazioni capaci di suggerire all’artista delle ardite soluzioni proiettive.

In un primo momento, si doveva recuperare l’automatismo grafico per dare all’inconscio l’opportunità di esprimersi. Successivamente si doveva oggettivare il segno dando respiro all’azione intenzionale. Tecnicamente, la risposta a questo problema è venuta dal frottage.

Questo espediente, destinato ad aprire all’artista la strada che porta alla conoscenza intima della realtà, è stato messo a punto dall’autore nel 1925. La traduzione più chiara del termine è quella di “sfregamento”. Il procedimento, nella sua applicazione più semplice, comporta le seguenti operazioni: stesura di un foglio su un inerte caratterizzato da una superficie a rilievi possibilmente irregolari; stesura sullo stesso di polvere di carboncino; strofinamento con un panno destinato a porre in evidenza la trama della struttura sottostante; elaborazione delle “provocazioni ottiche” ottenute attraverso un intervento pittorico intenzionale.

Ernst ha avuto modo di precisare che “il procedimento del frottage, ove applicato con tecniche appropriate, escludendo cioè ogni influenza conscia della mente e riducendo al minimo l’intervento strutturante dell’autore, non è altro che l’equivalente di una sorta di scrittura automatica. Il ruolo dell’artista si riduce così al potenziamento delle allucinazioni della mente ed egli è semplicemente lo spettatore, colui che contempla il farsi stesso della propria opera”. Come le visioni proprie dello stato di dormiveglia, le suggestioni grafiche del frottage possono prendere poi delle forme diverse svelando così delle verità nascoste.

La loro emergenza a livello di coscienza implica delle opportunità rigenerative affatto trascurabili.

Nella sua autobiografia Ernst allude al suo modo di navigare fantasticamente fra gli stimoli del reale. Nella circostanza egli accenna alla capacità di elaborare gli stimoli visivi in “una successione allucinante di immagini contraddittorie, doppie, triple multiple, sovrapposte l’una all’altra con la persistenza e la rapidità proprie delle rievocazioni amorose e delle visioni in dormiveglia”. Il frottage consente ad Ernst di creare delle immagini imprevedibili, che portano alla materializzazione delle sue allucinazioni. Questa tecnica, “irritando” le sue facoltà spirituali, dava voce alle sue straordinarie potenzialità creative. Così, la sua ostilità contro il modernismo, trovava espressione in suggestive immagini antitecnologiche create con la complicità della tecnica in discussione.

Prima della scoperta del frottage, nel suo periodo dadaista, Ernst è ricorso a delle tecniche idonee ad esaltare la fantasia. Fra queste, ricordiamo il collage e il montage. In quest’ultimo caso   si   assemblano   degli   oggetti   che,   opportunamente   decontestualizzati   e ricontestualizzati in cornici inusuali, acquistano un valore espressivo inedito capace di garantire all’inconscio dei pronunciamenti originali e ricchi di pathos. In questo caso, il legame fra psicoanalisi e arte, chiama in causa la parola-oggetto che fa irruzione nella mente dell’artista e dello spettatore come si trattasse di un gioco immaginativo, liberato dal controllo razionale così come questo può verificarsi nell’ambulatorio dello psicoanalista.

Un’altra tecnica messa a punto da Ernst è stata quella del grattage. Sulla tela si creano delle stratificazioni di colori diversi, per poi grattare con la spatola o un punteruolo la superficie della stessa. L’operazione viene eseguita con dei gesti automatici. Il risultato è, di solito, sorprendente. Intriganti risultano i casuali giochi di colore che emergono. Sulle trame cromatiche in discussione, l’autore interveniva poi pittoricamente in modo progettuale. L’intento,  era  quello  di  dare  consistenza  a  delle  suggestioni  tematiche  che  via  via emergevano tramite la graffiatura.
La ricerca di “provocatori ottici” adeguati ha spinto Ernst ad avvalersi di un’altra tecnica di sua invenzione: la decalcomania. Essa comporta il fatto che il colore ad olio umido non venga steso sulla tela con il pennello, ma premuto sulla stessa da una lastra di vetro appositamente  coperta  di  colore.  Gli  oggetti,  in  termini  di  soluzioni  pittoriche  da rielaborare, possono risultare sorprendenti.

Anche  il  driping  nasce  dalla  fertile  creatività  di  Ernst.  La  tecnica  consiste  nello sgocciolamento casuale di macchie di colore sulla tela. L’operazione, un “gioco da ragazzi” come amava definirla, poteva essere fatta con un banale supporto strumentale: un vasetto con il fondo bucherellato, dove veniva messo il colore scelto, al quale veniva applicata una piccola corda idonea a consentire al barattolo delle oscillazioni libere: l’artista lasciava al caso la responsabilità di un movimento che ricorda quello del pendolo caro a certi maghi.

Così facendo, Ernst interveniva sulla tela senza ricorrere alla mediazione del pennello. Il lavoro acquistava nell’occasione in libertà ed in leggerezza. Successivamente ci si poteva affidare  a  degli  interventi  correttivi,  sorretti  da  una  razionalità  più  pressante.  Così procedendo,  Ernst  lasciava  l’immaginazione  in  libera  uscita  solo  nella  prima  fase. Successivamente,   lasciava   che   le   strutture   dell’esperienza   pilotassero   la   propria produzione dando orizzonte storico-culturale ben definito al proprio agire
La psicoanalisi ci ha edotto sul fatto che nel rimosso troviamo tracce di conflitti non risolti.

La loro origine può essere sia reale che immaginaria. La terza possibilità è che l’innesco fattuale si sia dimostrato reale, mentre rispetto allo stesso il soggetto ha risposto con una marcata esuberanza immaginativa. Quest’ultima può trasformare un evento ‘banale’ in un dramma insopportabile.

Nella notte del 15 gennaio 1906, si verifica una coincidenza logicamente intrattabile dalla mente del quindicenne Ernst: nasce l’ultima sorellina e muore il suo adorato pappagallo rosa. Nei sogni e nel mondo magico, la fusione ‘naturale’ di due eventi accidentali è usuale.

La stessa cosa vale per il pensiero fantastico del giovane Ernst: da qui la sua allucinatoria confusione fra uomini ed uccelli, la quale ha dato vita alla figura di Loplop, il Superiore degli uccelli nel quale egli usava identificarsi arrivando a definirlo il suo “fantasma personale”.

Sembra che il nome Loplop derivi da un poetico cantastorie un tempo operante in una borgata parigina. La sua, risultava  una  gradita  presenza  ludica  fra  gli studenti. Nel dizionario surrealista del ‘38, Ernst parla di Loplop come di un “pittore, scrittore e teorico del surrealismo dagli inizi del movimento ai giorni nostri”. La trama identificatoria con il suo immaginario personaggio è in questo caso evidente. Nelle descrizioni del nostro artista, Loplop interviene nel ruolo di narratore. Loplop è anche portatore di luce ed è suo compito quello di procurare la luce alle lampade di Parigi. Suo tramite, Ernst trova spazio nelle proprie rappresentazioni pittoriche rinverdendo così una tradizione pittorica inaugurata nel tardo Medioevo.

Il pensiero della nascita, come evento sottrattivo, non era da lui sopportabile. Questo perché lo stesso lo predisponeva ad odiare la vita. Ciò che non era per lui sopportabile, era l’idea della morte sacrificale del suo più caro amico: un pappagallo rosa. In termini di bilancio psicologico i conti non tornavano: svaniva una presenza rassicurante per lasciar posto ad un competitore emozionale.
 
Da qui le turbolenze nel suo animo, che lo hanno portato a vivere intimamente una drammatica conflittualità psicologica. Questa profonda ferita simbolica l’ha spinto ad esorcizzare il dramma della perdita dipingendolo i propri turbamenti intimi.

3 Fantasie, sogni ed inarginabili istinti: la pittura onirica di Salvador Dalì
I primi anni di vita di Salvador Dalì, sono quelli di un bambino nato in una ricca famiglia borghese che era coccolato oltre ogni limite dalla madre, dalla zia e dalla vecchia e amabile bambinaia. Per contro, il padre, notaio, era piuttosto rigido ed inflessibile anche se si sentiva costretto ad assecondare l’irrequieto e poco equilibrato figlio. Sin da allora, l’artista catalano ha avuto modo collaudare le proprie abilità teatrali e di forgiare la sua isteria punteggiata  da  spunti  paranoidi.  Il  tutto  era  posto  al  servizio  di  un  incontenibile narcisismo,  che  lo  spingeva  ad  insistere  con  dei  comportamenti  irritanti  e  poco assecondabili.

Le memorie del nostro protagonista, presenti nei suoi diari, sono ricche di testimonianze rinvianti  ad  un’aspra  e  acida  reazione  nei  confronti  dei  genitori.  Dai  suoi  ricordi estrapoliamo la seguente testimonianza: “Bagnai il letto fino agli otto anni per puro divertimento”. Ero un dittatore, sedotto “dall’aroma affascinante della colpa e della paura”.

Dalì detestava la stessa nozione di ‘limite’ ed era solito sfidare senza remore le regole familiari.

Silenzioso, solitario, sensibile e curioso, il piccolo Dalì nasce sotto il segno di un evento funesto: la morte, poco prima della sua nascita, del fratello Salvador Dalì, rispetto al quale egli si vive come un suo ‘doppio’ venuto al mondo con lo stesso nome per sostituirlo e placare così l’angoscia dei genitori. Nelle sue fantasie, l’idea della morte si faceva in lui presenza viva e trovava espressione in forme di curiosità acuta nei confronti di ciò che si apriva alla putrefazione e al suo stadio preliminare: la mollezza.

Che la sua nascita certificasse il ritorno di un defunto era per Dalì una certezza assoluta. A dimostrazione di ciò, egli ebbe modo di formulare delle precisazioni quali la seguente: “Come nacqui vestii gli abiti di mio fratellino anzitempo scomparso e giocai con i suoi giocattoli”. Nascendo, in altri termini, egli ne incarnò lo spirito. Il suo venire al mondo, inoltre, lo spinse a vivere confusamente le più viscerali passioni ed i sentimenti più radicali, mentre per fedele compagna ebbe la fantasia e ǥl’angoscia di morte.

Per un bambino la morte è un evento intollerabile ed inesplicabile, un non senso assoluto dalle striature drammatiche. Per dare significato alla morte, Dalì aveva bisogno di un appiglio concreto appartenente alla realtà esterna. Attratto com’era dagli insetti, fu colpito dalla pratica cannibalica della mantide religiosa, la quale apparse nella sua vita come una presenza capace di dare risposta all’assurdo: si muore per trasferire la vita ad un’altra esistenza.

A quanto pare, sin da piccolo Dalì era tormentato dalla fantasia di essere divorato da delle presenze ostili. Nelle sue fantasie faceva spesso capolino una scena, afferibile all’agire della mantide, nella quale la madre lo divorava. Non tutto però era tragedia, poiché ai suoi occhi l’’amore era “più forte della morte. Il maschio della mantide, a metà già divorato si sforza ancora di fecondare la compagna”. Uno dei possibili testi impliciti: solo l’amore di una madre-mantide e di un padre aperto al sacrificio di sé potevano pensare alla nascita di Salvador Dalì dopo la morte di Salvador Dalì.
In ogni caso, Dalì era convinto che il generoso seme dell’arte fosse fecondato dalla morte.

Questo pensiero coatto iniziò ad albergare in lui sin dalla prima infanzia, vale a dire da quando vide un riccio morto brulicante di vermi impazziti che fecero nascere nel suo cuore il “fascino dell’orrore”. Una sua incrollabile certezza: “dall’idea di morte ha avuto per me inizio qualsiasi costruzione immaginativa” e di conseguenza tutta la “mia produzione artistica”. E l’stinto sessuale, da molti ritenuto la più generosa sorgente della creatività umana? Per Dalì era importante, ma non quanto il suo concorrente istinto.

Ben presto, l’arte divenne per Dalì la miglior soluzione per esorcizzare le proprie fantasie a respiro allucinatorio, soprattutto quelle rinvianti al suo essere venuto al mondo come una ‘riserva’, un sostituto che deve prendere in mano il testimone della vita dal fratello scomparso. Da qui l’insorgenza di un preciso problema: quello di vivere la propria soggettività,  malgrado  la  presenza  fantasmatica  del  doppio  che  l’ha  preceduto  nel palcoscenico della vita. Comunque, rispetto al fratello scomparso, Dalì diceva di essere “meno intelligente di lui, ma più capace di accogliere in sé la bellezza del mondo”. Nella sua mente, il dramma della sostituzione non trovava soluzione e lasciava aperta la paura di uscire a sua volta anzitempo dal corso della storia.

Più tardi, rivisitando simili memorie giovanili di Dalì, il suo psichiatra parlerà di traumi infantili caratterizzati da una serie di reazioni a respiro allucinatorio. Allora, egli si riferiva alle oggettive difficoltà del bambino causate in primo luogo dalla sua identificazione con il fratello morto. Nella circostanza, il medico insisterà sulla forza dell’angoscia di morte agitante il cuore di Dalì e sul ruolo che questa sarà destinata a svolgere in relazione al suo sviluppo psicologico. Come vedremo, il dipingere di Dalì va, in misura rilevante, inteso come un modo per superare questa contingenza funesta attraverso il meccanismo di difesa della sublimazione. L’esito di questa operazione: delle tele affascinanti nelle quali i conflitti psicologici si stemperano in forme pittoriche tecnicamente perfette.

Quasi tutti i dipinti di Dalì sono saturi di simboli sessuali. Il sesso, una forza ostile nei confronti della quale il destino l’ha visto sacrificare la propria virilità. Sin da giovane, egli visse il fastidioso sentimento di trovarsi in bilico fra l’omosessualità e l’eterosessualità. I primi appuntamenti nelle case del piacere si dimostrarono fallimentari, poiché l’impotenza lo insidiava in modo tale dal renderlo ossessionato dall’idea della mollezza. La sorte, poi, lo espose all’incontro con una donna fatale: Gala. La sua musa ispiratrice, bramava i piaceri del sesso oltre ogni altra cosa. Con lui non fu fortunata: il suo compagno era un amante ǥinconsistente. Da qui il timore di Dalì di perderla. Paura questa che poteva essere imbrigliata solo dal suo illimitato narcisismo.

Dalle sue memorie leggiamo: “Mai, fino a quando non conobbi di Gala, avevo veramente fatto all’amore: mi sembrava un impegno tremendo, del tutto superiore alle mie forze fisiche, ‘non adatto a me’”. Ma cos’era che rendeva Dalì inadeguato il far sesso? Leggendo fra le righe della sua autobiografia troviamo un preciso indiziato: il suo incontenibile narcisismo. A quanto pare, anche Gala ne fece le spese. Infatti, sembra che neanche lei sia riuscita ad avere ragione delle inibizioni del suo fragile ed inibito amante.

Pure in questo caso l’arte venne in soccorso a Dalì, imbrigliandone l’ansia. Egli esorcizzò il reale dipingendolo, e lo fece portando agli altari la mollezza. Mollezza che funzionava da emblema rispetto alla sua sessualità debole. Ed ecco apparire nei suoi dipinti gli orologi molli e ǥle grucce. Orologi flaccidi come il suo pene, che scandivano ore orfane di piaceri virili. Grucce soccorrenti, destinate a sorreggere tutto ciò che trovava espressione sotto il segno della caducità.

La mollezza come crollo della durezza. Il rinvio è alla perdita di energia di un pene che si affloscia all’insegna della sconfitta e dell’amarezza. Nella testa di Dalì, la mollezza veniva associata a quell’irriducibile perdita di vitalità evocante l’accadimento della morte. La relazione fra cadavericità e mollezza, riscontrabile nei dipinti di Dalì, sembra alquanto evidente. D'altro canto, il suo stesso psichiatra ebbe modo di informarlo che, a causa della sua violenta identificazione con un morto, non poteva avere del suo corpo che un'immagine molle, cadaverica e divorata dai vermi.
Ma come il dramma s’impone nell’immaginario di Dalì, la speranza e la riabilitazione si fanno presenze vive. Ed ecco le grucce, capaci di farsi carico dell’angoscia di morte e di assicurare una provvisoria resurrezione. Nei suoi dipinti, esse tradivano una funzione di sostegno dal significato implicito palese. Il loro scopo: fare da contrappeso alla caducità delle cose, vale a dire tenere in sospensione il destino avverso. E qui s’impone l’idea di un’arte capace di imbrigliare l’angoscia di morte e di bloccare le ingiurie del tempo.

Il suo stare in bilico fra la fantasia e la realtà spingeva Dalì a dare credito all’irrazionale e a quella che egli considerava la più genuina sorgente della propria creatività: l’attività onirica. Era sul sogno che lui puntava per superare le angustie del reale. Sogno e realtà sono, in alcune riflessioni dell’autore, armonizzabili fra loro soprattutto grazie all’attività artistica. Siamo nell’epicentro dello spirito surrealista, così come lo intendeva Breton quando nel primo manifesto del surrealismo affermava: “Credo nella soluzione futura di questi due stati, così contradditori in apparenza, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di superrealtà, se è possibile chiamarla così”. Un inciso: Dalì amava molto dormire e cercava di ricordare i propri sogni. Sogni nei quali, così usava ribadire, “ho sempre visto quello che gli altri non vedevano”.

Nel suo dipingere, Dalì coltivava una precisa ambizione: quella di tenere viva, durante i suoi momenti creativi, l’attenzione sui suoi sogni. Egli conosceva l’affermazione freudiana del sogno come via regia che porta all’inconscio. Per questo confidava molto nei propri sogni notturni e in quelli fatti ad occhi aperti. L’obiettivo: dare all’inconscio quel diritto di parola acquisito e consolidato fra i surrealisti. Un inciso: Dalì amava molto dormire e cercava di ricordare i propri sogni. Sogni nei quali, così usava ribadire, “ho sempre visto quello che gli altri non vedevano”. Il problema risultava poi quello di dare respiro pittorico a simili ‘visioni’. La sua straordinaria tecnica gli veniva nell’occasione in soccorso.

Nei sogni daliniani il delirio si fa spesso discorso a tutto tondo. Forse, è dai propri sogni che l’artista catalano mutuò la fertile idea che contribuì a dare voce al suo metodo d’indagine da lui definito paranoico - critico. In merito egli scrisse: “definisco il metodo paranoico-
critico come l’arte di accettare tutte le proprie contraddizioni con lucidità facendo vivere agli altri le angosce e le estasi della propria vita”. Dalì va oltre, arrivando a dichiarare che la sua missione esistenziale è quella di fare accettare agli altri gli eccessi della sua personalità ed il peso delle proprie angosce creando una sorta di partecipazione collettiva. Lo scopo: mirare, attraverso il proprio sacrificio, alla salvezza del mondo.

Dalì insisteva nel ricordare come la sua unica ambizione in pittura consistesse nel materializzare  le  immagini  irrazionali  che  colonizzavano  la  sua  mente.  Il  pensiero paranoico gli consentiva la creazione di immagini doppie, triple, deformi. Il prodotto finale: raffigurazioni perfette di un libero pensiero onirico. In pratica, allo scopo di pescare bene dal proprio inconscio quelle immagini pittoriche che lo resero famoso, Dalì ricorreva a delle “fantasie sperimentali”: nei momenti più inattesi, lasciava che la propria mente generasse delle fantasie spontanee quanto ardite. Queste venivano da lui pilotate all’insegna della libertà più assoluta. Da qui la generazione “di immagini di ricordi assai precisi di cose realisenza modificazioni apparenti, eppure cariche di un’emozione lirica e affettiva vivissima e assolutamente incomprensibile”.

 
4 Complesso edipico e creatività artistica in Vincente van Gogh

Il patografo rilegge le biografie degli artisti affidandosi ad un linguaggio scientifico che può risultare, a volte, grigio e metallico. Spesso i suoi resoconti sono relativamente privi di pathos. Questo perché egli è costretto a far ricorso a delle categorie logiche piuttosto che emozionali.  Questa  situazione  si  modifica  radicalmente  nel  caso  delle  descrizioni autobiografiche degli artisti, ovvero dei loro scritti tecnici o dei loro resoconti epistolari. In alcuni  casi,  il  lettore  può  trovarsi  di  fronte  a  delle  testimonianze  caratterizzate  da un’elevata cifra poetica e da un marcato valore di fascinazione. Per renderci conto di ciò basta rivisitare alcune pagine del carteggio fra Vincent e Theo Vang Gogh, dal quale estrapoliamo alcuni passaggi rispetto ai quali lo psicologo dell’arte non può rimanere indifferente.
    Leggendo i contributi scritti di Vincent van Gogh, si ha viva la sensazione di trovarsi di fronte ad una persona che gli psicologi di formazione neurolinguistica definirebbero visiva. Questo in ragione del fatto che le sue descrizioni della realtà sono prevalentemente cromatiche. Vediamo, per esempio, l’esordio di una sua lettera al fratello nella quale egli descrive  il  suo  arrivo  a  Saintes-Maries  sul  Mediterraneo  nel  modo  seguente. “Il mediteranno ha un colore come quello degli sgombri, vale a dire è cangiante, non si sa bene se verde o viola, non si sa sempre se c’è del blu, perché a seconda del riflesso cangiante prende una tinta rossa o grigia”.
Quando Vincent incontrava una persona che lo colpiva si chiedeva quale somiglianza ci potesse essere fra il suo volto e qualche altro viso rintracciabile nella storia dell’arte.

Durante il suo periodo delle “miniere”, incontrando un caposquadra fu colpito dalla sua espressione e si chiese il motivo di ciò. La risposta: “Pensai all’acquaforte di Meissonier, ‘Il lettore’”. Simili considerazioni erano per lui usuali. Parlando di una ragazza di nome Sien, che ha fatto un’improvvisa quanto episodica irruzione nella sua vita, scrive: “Somiglia un po' ad una figura di Chardin o di Frère, o forse di Jan Steen”. Simili esempi ci suggeriscono l’ipotesi che la sua testa fosse come una pinacoteca ambulante, che necessitava di continui stimoli visivi. Egli stesso ammise: “Disegno per consolidare le idee che la vista delle cose mi suggerisce”.

Anche in relazione alla propria follia, Vincent si rapportò visivamente. Significativa risulta, in questo senso, la seguente sua frase: “Ah! miei cari compagni, noi altri pazzi godiamo perché  sappiamo  vedere!”.  In  termini  sintomatologici,  le  sue  allucinazioni  erano soprattutto visive. Il dramma cromatico giunse ad un punto tale che egli arrivò a tentare il suicidio ingoiando il contenuto di alcuni grossi tubetti di colore. Siamo alla vigilia del Natale del 1888. Il giorno prima, in preda ad un eccesso allucinatorio, si tagliò l’orecchio destro.

Il 4 Novembre del 1876, in piena fase “mistica”, Vincent pronuncia il suo primo sermone nella chiesa del reverendo Jones. Il suo argomentare è ricco di similitudini. Nell’occasione propose ai fedeli una descrizione visiva di natura pittorica, parlando di un quadro che rappresenta un paesaggio autunnale percepito nelle ore serali. Il tema da lui trattato: “la vita come pellegrinaggio”.

Rispetto a quest’evento è, per i nostri fini, interessante il suo seguente commento espresso qualche anno dopo: “Quando ero sul pulpito mi sembrava di emergere da un sotterraneo oscuro verso la luce amica del giorno”. Siamo, quindi, ancora nella logica del pellegrinaggio, di un passaggio fra l’oscurità e la luce. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad una similitudine visiva che ha per oggetto implicito il mondo della notte e quello del giorno.

La propensione verso l’impegno religioso di Vincent aveva un carattere storico: il padre e il nonno erano pastori e, come loro, lui voleva diventare pastore. Ci riuscì, ma solo per un po'.
Più tardi, complice il sentimento di cruda ambivalenza nei confronti del padre, arrivò a dire che trovava orribile la religione e ne diffidava come ‘una fatalità’. Per le orecchie del genitore, questo era troppo. Da qui la brutale cacciata del figlio da casa. Questo evento deve aver rinforzato in Vincent l’opinione di svolgere nella sua famiglia “il ruolo del cane irsuto con le zampe bagnate, che tutti esitano a far entrare in casa”.

La giovinezza di Vincent, come emerge dalle sue testimonianze, è stata “infelice, fredda e sterile”. Da quanto è possibile arguire dalla lettura delle lettere indirizzate a Theo, l’epicentro conflittuale va rintracciato nella figura del padre. A proposito, egli ha avuto modo di esprimere la seguente affermazione: “Ho litigato spesso con papà, perché nostro padre diceva con frase dittatoriale: ‘E’ così!”. Simili affermazioni liquidatorie provocavano nel nostro giovane protagonista una puntuale reattività, la quale innescava a sua volta un mortificante circolo vizioso. Questo l’ha portato, per esempio, a scrivere di aver tollerato delle espressioni paterne, che non avrebbe accettato da qualsiasi altro uomo “in pieno possesso delle sue facoltà mentali”. A Theo che cercava di indurlo ad una condotta più tollerante, rispose: “Io penso che si è nemici di noi stessi se non si vuole guardare le cose in faccia”.
Nell’immaginario di Van Gogh la bontà o meno del padre risultava tale non in sé, ma in relazione a dei termini di paragone riferiti agli artisti  da lui più amati. Fra questi primeggiava  il  nome  di  Millet.  In  relazione  a  quanto  stiamo  dicendo,  un  passaggio discorsivo è quanto mai illuminante relativamente alla configurazione dell’ambivalenza affettiva che Vincent provava per il padre. “Non parlo male di papà quando considero il suo carattere in sé, ne parlo male non appena lo confronto con il grande padre Millet, per esempio”.

In  questa  frase  spicca  l’attributo  idealistico      “grande  padre”  rivolto  a  Millet.  Questa designazione interessò altri artisti. La frequenza d’uso dell’appellativo in discussione, in relazione ai pittori da lui più amati, va letta come un indizio del fatto che l’autore viveva in modo conflittuale la presenza paterna, arrivando a perfezionare rispetto alla stessa una marcata distanza emozionale. In ogni caso, riguardo a Millet, ebbe a dire: “Millet è il padre dei giovani pittori. Io penso come lui, e credo in ciò che dice una volta per tutte”.

Dopo aver precisato che suo padre l’ha trascinato al di fuori della natura, gettandolo in “una società mercantile nella quale ciò che più conta è la realizzazione economica ed il prestigio sociale”,  Vincent  insiste  nel  ricordare  che “tutto  si  può  dire  di  Millet,  ma  è  stato indubbiamente lui che mi ha portato alla natura”. Ciò precisato, egli si apre al fratello con un paragone del seguente tenore: “mentre Millet mi dice: Vivi onestamente, per lo meno cerca di farlo e di affrontare la nuda verità, e anche guadagnar denaro è faccenda che si può aggiustare ed anche in ciò sarai onesto”, mio padre afferma: “Guadagna denaro e la tua vita diverrà onesta”. In questo modo, “ciò che ciò che mio padre cercò di costringermi a fare come  dovere  era  il  fantasma  del  dovere”.  La  filosofia  del  discredito?  Qui  si  fa pronunciamento assoluto!

Il riferimento alla natura di cui sopra acquista un senso più chiaro dagli stralci che seguono. “I pittori comprendono la natura, anzi, essi l’amano e ci insegnano a vedere”. “Vedi, caro fratello, sento un rispetto molto profondo per Millet, Corot, Daubigny e così via”, pittori questi, ai quali Vincent riconosce il merito di averlo riportato alla natura e alla verità. Il raffronto con il genitore lo ha spinto a scrivere: “L’ultimo dei pittori, l’ultimo degli uomini che lottasse direttamente con le nude verità della natura è più di quanto non sia nostro padre”. La trama argomentativa prosegue con frasi del seguente tenore: “Papà non ha dato altro che una falsa tranquillità alla mia coscienza”. “Egli ha a che fare con una semplice accozzaglia di pregiudizi a confronto della fredda onestà di Millet e di Corot, ad esempio”.

Il padre di Van Gogh esce male da molti paragoni impietosamente formulati da Vincent. In una lettera al fratello si legge: “La dottrina di Millet è talmente grande che le idee di papà paiono assai poveramente piccine al confronto .......   E’ mia convinzione profonda e non ne faccio segreto perché tu, ad esempio, confondi il carattere di papà con quello di Corot. Come considero il papà? Come una persona dal carattere simile a quello del padre di Corot, ma che non ha nulla da spartire con Corot stesso. Malgrado tutto, Corot amava suo padre, ma non lo seguì, però. Anch’io amo papà, finché la vita non ci vien resa difficile da contrasti di idee. Non amo papà dal momento in cui una determinata forma di orgoglio e di piccineria rende impossibile una riconciliazione completa e decisiva tanto desiderabile, privandola di generosità e di efficacia”.

In questo passaggio, la posizione conflittuale intrapsichica esplode nelle sue trame più emblematiche. La vicenda edipica in casa Van Gogh si impernia sulla brutalizzazione del padre da parte di Vincent. Nell’occasione, il genitore diventa un capro espiatorio a causa della sua “piccineria”. Nel gioco entra anche il fratello Theo, al quale Vincent rimprovera di avere la mente annebbiata da una passione gratuita nei confronti del genitore, ovvero da un pernicioso senso del dovere. Negli scritti del nostro autore emerge una mal sopita irritazione per l’acquiescenza del fratello nei confronti del padre. Theo vede il padre in modo diverso da Vincent e soffre delle lettere che riceve. La situazione è resa più complicata dal fatto che il nostro protagonista si trova in una situazione psicologicamente difficile rispetto al fratello più giovane, dal quale egli dipende sia economicamente che affettivamente.

Dunque, parlando male del padre, Vincent accusa cripticamente il fratello che lo difende. Egli lo vorrebbe dalla sua parte, ma la ‘sacra’ alleanza dell’”orda primitiva” descritta da Freud come primo atto edipico della storia non ha modo di instaurarsi nell’ambito della famiglia   Van   Gogh.   Il   nodo   critico   della   discussione   rimanda   alla   necessità dell’emancipazione dalla figura paterna.

Nei menzionamenti del nostro artista troviamo ancora una volta una comparazione tratta dall’universo artistico. Il modello preso in considerazione è in questo caso Corot, che, pur amando il padre, è riuscito ad affrancarsi dalla sua ingombrante presenza. L’insistenza di Vincent su questo aspetto ci spinge a riflessero sul suo senso di inadeguatezza, che alla fine risulterà tragico, il quale chiama in causa l’incapacità del nostro artista di venire a patti con il demoniaco rappresentato dalla figura paterna.

Gli artisti amati da Van Gogh entrano dunque nel suo scenario comparativo. Nei suoi scritti troviamo degli indizi che ci riportano ad una realtà psicologica prevedente un’eliminazione simbolica del padre funzionale ad una sua sostituzione virtuosa da parte dei suoi idealizzati eroi, a partire da Millet. Questi ultimi sono serviti da modello a Vincent per strutturare il proprio “Ideale dell’Io”, mentre la figura paterna è stata via via relegata in una posizione marginale nell’ambito di quel ventaglio di presenze che polarizzano delle identificazioni positive.

Per articolare più efficacemente le proprie considerazioni Vincent fa spesso riferimento alla dimensione cromatica. In una sua lettera si legge: “I capelli bianchi di papà mi rendono ancor più netta la certezza che forse non ci resta molto tempo per una riconciliazione. Non dò gran valore alle riconciliazioni in punto di morte, preferisco che si verifichino in vita”. Il colore appare più volte nelle decodificazioni emozionali dei propri stati d’animo Vincent, il quale fa spesso riferimento a diverse tonalità di nero e grigio in relazione alla propria melanconia.
Anche per quanto riguarda i suoi quadri, in riferimento agli stati d’animo negativi, troviamo alcuni richiami cromatici. Così, per esempio, egli evita di dipingere la cupa e sentimentale disperazione melanconica per puntare sul dolore vero. Nell’occasione, si assiste ad una restituzione cromatica che non è quella che viene catturata dallo sguardo, ma quella che il suo stato d’animo evoca in relazione all’oggetto osservato.
Gli accadimenti esistenziali che più colpiscono quanti sono attratti dalla biografia del nostro artista sono il taglio dell’orecchio ed il suicidio. Il primo evento suona come una sorta di anticipazione del secondo. Ebbene, Freud ha definito il suicidio come un omicidio ruotato di 180°. La prima vicenda chiama esplicitamente in causa la figura parentale del fratello-padre, personificata da Gauguin, che per un po’ fu ospite del nostro protagonista.

Un incontro questo sul quale Vincent puntò molto in relazione alla propria crescita pittorica. La sua ambizione, era quella di fondare ad Arles un atelier diretto da Gauguin, mentre la sua massima velleità era quella di incrementare il valore espressivo della sua tavolozza.
E’ difficile sapere perché Vincent abbia puntato tutto su Gauguin per cercare un’ardua riabilitazione esistenziale e una più decisa affermazione artistica. Un motivo può essere ricercato nel fatto che il primo si sentiva legato al secondo attraverso il fiume carsico della follia, ovvero dalla comune e viscerale passione per la natura. A quest’ultimo proposito, in Avant e aprés, Gauguin scrive: “In ogni luogo ho bisogno di un periodo d’incubazione, di capire ogni volta l’essenza delle piante, degli alberi, di tutta la natura infine, così varia, così capricciosa, che non vuole mai scoprirsi e lasciarsi indovinare”. Questa frase è stata scritta a motivazione della sua assente produttività pittorica nei primi giorni di Arles. Da essa, comunque, è riconoscibile un punto forte di contatto con l’animo di Van Gogh.

Vincent attendeva Gauguin come fosse il Messia. La sua speranza era che la presenza di un amico simile a lui potesse aver ragione del dramma della propria solitudine. Solitudine ben temperata da un isolamento raramente spezzato da convivenze salutari o da episodici incontri armoniosi. Lo stato d’animo in discussione, è ben riconoscibile in una sua lettera a Theo nella quale egli insiste con l’incisiva similitudine di un uccello in gabbia.

Nella circostanza allude ad un uccellino che, a primavera, in gabbia pensa ai suoi simili che in quel momento stanno vivendo il periodo degli amori e stanno facendo il nido per ospitare i loro piccoli. Questi pensieri lo deprimono, mentre “dentro di sé sente ribellione per la sua sorte”, soprattutto in ragione del fatto che i propri compagni liberi lo ritengono un fannullone che “vive di rendita”. Fra sé e sé a proposito commenta: “Me ne sto in gabbia, me ne sto in gabbia, e non mi manca niente, imbecilli! Ho tutto di cui ho bisogno! Ma per piacere, libertà, lasciatemi essere un uccello come gli altri”. Il suo commento conclusivo:
“Così, talvolta, un uomo che non fa nulla assomiglia a un uccello che non fa nulla”. Ebbene, Gauguin era per lui una possibile presenza che poteva aprire le porte di quella gabbia, attraverso la chiave della pittura.

Al pari di ogni sua altra figura privilegiata di riferimento, Van Gogh prova una profonda ambivalenza nei confronti di Gauguin, malgrado quest’ultimo, con il suo arrivo, abbia per un po' dato ordine e luce alla sua vita. Da un lato, egli lo vede come un amico ricco di vitalità e di passioni viscerali, come un artista un po' più vecchio di lui dal quale può acquisire dei preziosi insegnamenti. Dall’altro, lo considera un calcolatore, un agente di borsa. Gauguin a sua volta ricorda che ciò che più irritava Vincent “era dover riconoscermi una notevole intelligenza, nonostante la mia fronte così bassa, segno di imbecillità. Al di là di questo, un’infinita tenerezza o piuttosto un altruismo evangelico”.

Il gioco della confusione di ruolo, nel nostro caso amico fraterno - padre, deve essere stato presente anche nella relazione di Vincent con Gauguin. Il primo usava definire ‘maestro’ per l’appunto ogni artista al quale lui si sentiva legato da una sorta di amor filiale. Ebbene all’amico Paul, che ricordiamolo era un po' più anziano di lui e da Vincent considerato artisticamente  più  smaliziato,  prima  di  morire  scrive: “Caro  maestro,  dopo  avervi conosciuto e avervi fatto soffrire, è meglio morire con la mente lucida che in uno stato degradante”. L’autocollocamento fra i discepoli di Gauguin era, probabilmente, per il tormentato e confuso Vincent un segno di riconoscimento all’amico che l’aveva aiutato ad uscire dalle pastoie di un neoimpressionismo al quale aveva sacrificato la propria fertile soggettività. Nel diario di Gauguin, troviamo la presenza di un compagno riconoscente e premuroso. In riferimento a Vincent l’autore scrive: “Lo sorpresi alcune sere, in piedi, vicino al mio letto.

Difficile spiegare come riuscisse a svegliarmi in quei momenti. In ogni caso, bastava dirgli: ‘cosa  C’è  Vincent?’,  perché  se  ne  tornasse  a  letto  in  silenzio  e  si  addormentasse profondamente”. Verosimilmente, l’atteggiamento in discussione scaturiva da una persona preoccupata ed ammirata insieme, che tradiva dei bisogni marcatamente infantili. E’ un po' come se Vincent avesse temuto l’abbandono dell’amico. Abbandono che era nell’aria, poiché Gauguin mal sopportava le continue crisi del compagno. Un giorno, dopo l’incidente drammatico che segue, Gauguin, in obbedienza alla premonizione che gli impedì  di rispondere prontamente all’invito di Vincent, lasciò l’amico in preda ad una profonda crisi depressiva,  causata  almeno  in  parte  dal  senso  di  colpa  generato  dalla  progettata aggressione all’amico.

L’evento che scatenò il dramma del pittore belga accade il 23 dicembre 1888. Dopo cena, Gauguin decide di uscire da solo per fare una passeggiata per la città. All’improvviso sente dietro di sé dei passi sospetti. Nel momento in cui si gira, vede Vincent con un rasoio in mano che si sta gettando contro di lui. Gauguin, pietrificato, si limita a guardare in silenzio l’amico. Questi si impietrisce e se ne ritorna incupito a casa. In quella notte Vincent si tagliò un orecchio e lo portò in dono ad una prostituta di nome Rachel. Di quel colpo, destinato all’amico e vibrato contro se stesso, troviamo una fredda testimonianza visiva in un autoritratto di Van Gogh dal titolo “L’uomo con la pipa”. In esso si vede un uomo assorto e lontano, mentre è intento a fumare ‘tranquillamente’ una pipa. Ricordano il tragico evento una benda biancastra e uno sfondo rosso sangue.

Negli scritti di Gauguin troviamo una toccante testimonianza relativa agli ultimi scampoli di vita di Van Gogh. La sera dell’incidente del rasoio, Gauguin non se la sentì di ritornare a casa. Andò a dormire in una pensione, dove, per la tensione che albergava in lui, non riuscì a dormire sino alle tre del mattino. Al risveglio cercò Vincent. Davanti alla porta di casa trovò una piccola folla. Sentì l’aspro odor della tragedia. Accompagnato da un gendarme, che lo accolse con la seguente gelida e colpevolizzante espressione“cosa avete fatto al vostro amico?”, entrò in casa. Per un attimo Vincent si riebbe. Chiese la pipa ed il suo tabacco. Fu portato all’ospedale, dove morì poco dopo. Nelle memorie di Gauguin leggiamo: “Si sparò un colpo di pistola allo stomaco, morì qualche ora dopo, sdraiato sul suo letto, fumando la pipa, con tutta la sua lucida intelligenza, l’amore per la sua arte e senza rancore alcuno”.

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