Crisi del lavoro, psicopatologia e Mobbing

Autore: Rosalba Gerli

Crisi del lavoro, psicopatologia e Mobbing Come psicoterapeuta non posso che tentare di dar voce alla sofferenza che deriva dalle difficoltà di questo momento storico e in modo particolare a quella che deriva dalle trasformazioni del lavoro.
Un lavoro che potremmo definire oggi maltrattato come sempre più spesso sono maltrattate le persone al lavoro.
 
Io mi occupo da tempo di disagio lavorativo e da circa dieci anni conduco gruppi con persone che presentano problemi legati alle varie forme del disagio sul lavoro compreso il mobbing, che è solo un aspetto di tale disagio, ma che ha avuto il merito di aprire una finestra sull’ampio panorama della sofferenza che scaturisce dalle condizioni di lavoro.
 
Il termine mobbing infatti è spesso abusato, forse anche a causa della sovraesposizione mediatica, ed è utilizzato erroneamente per descrivere qualsiasi forma di conflitto sul lavoro, ma per molte persone questo è l’unico modo di poter dar voce e attribuire un senso alla propria sofferenza altrimenti incomprensibile e indicibile.
 
La crisi ha incrementato questa sofferenza.
 
Tengo a sottolineare che in questo momento il disagio psicologico legato al lavoro ha assunto delle dimensioni di emergenza sociale, ma rischia di passare sotto traccia, se ne parla poco e si fa troppo poco, così come avviene in generale sul tema del lavoro.
 
Per questo proverò a costruire un quadro che spero possa aiutarci a comprendere questa sofferenza tracciando un filo rosso tra i termini crisi, lavoro, psicopatologia e mobbing, allargando lo sguardo in modo da poter includere il mobbing nell’ampio contesto del disagio lavorativo e comprendere le origini e le modalità in cui si generano l’ingiustizia sociale e le conseguenze patologiche nei contesti di lavoro.
 
Per quanto concerne il mio lavoro sul campo il gruppo è uno strumento privilegiato e indispensabile e nel progetto che negli anni ho costruito affianco ai gruppi con operatori sindacali, rls ed rsu, quelli con i lavoratori nei contesti dove si rilevano situazioni che generano disagio e contemporaneamente conduco i gruppi specializzati per l’elaborazione del disagio lavorativo, rispetto al quale ho costruito un modello e un setting compatibile con le esigenze e i limiti del contesto sindacale.
Il gruppo è anche un vertice privilegiato attraverso cui affrontare il tema del disagio lavorativo e del mobbing perché aiuta a comprendere meglio le dinamiche di questo fenomeno e ad individuare gli aspetti di resilienza, ma anche perché la presa in carico di persone con queste problematiche richiede un approccio multidisciplinare che consenta di affrontarlo in tutta la sua complessità per cui bisogna costruire un metodo che sappia creare la giusta cooperazione tra diverse figure professionali: psicologo, sindacalista, medico, avvocato, delegato sindacale ecc.
 
Lo psicologo, che fa parte di questo gruppo multidisciplinare, secondo il metodo che ho costruito insieme al gruppo dei colleghi, partecipa attivamente anche alla informazione, alla formazione e dove è possibile gestisce le mediazioni del conflitto, quindi costruisce e monitora progetti di reinserimento al lavoro.
 
Ma andiamo per gradi. Le parole chiave del convegno sono mobbing e crisi, e io vorrei dare il mio contributo clinico cominciando da alcune riflessioni sulla crisi.
 
 
CRISI
 
Credo sia bene precisare che la crisi non è l’origine dei problemi bensì l’effetto e che la recessione economica ne costituisce solo un aspetto.
 
Questa crisi, infatti, coinvolge l’intero sistema culturale e valoriale, il nostro modo di pensare (o di non pensare perché quel che sembra emergere oggi in questa idealizzazione dell’efficienza è spesso invece una mancanza di capacità pensante), le strutture su cui si sono costruite le relazioni sociali, come le istituzioni, dalle più semplici alle più complesse e quindi il nostro modo di vivere insieme e di prenderci cura delle persone e dell’ambiente in cui viviamo inteso sia come ambiente sociale che fisico (la terra, le risorse, l’aria ecc.)
 
Sono gli schemi di un sistema collettivo che sembrano crollare generando un profondo disagio sociale e psichico che ci spinge ad interrogarci qui oggi su cause, effetti e possibili percorsi di cambiamento.
 
In tal senso la prospettiva clinica può aiutarci a pensare in modo costruttivo partendo da alcune precisazioni sul concetto di crisi.
 
In generale quando si utilizza il termine crisi si tende a focalizzarsi sull’accezione negativa. Socialmente per esempio il concetto di crisi appare rivestito da un alone negativo di pericolo da evitare e allontanare il prima possibile perché può evolvere nella situazione peggiore, piuttosto che nella direzione costruttiva e positiva (Sepe, Onorati, Rubino, Folino, 2011).
 
Tuttavia l’emergere di una crisi segnala la comparsa di un momento crucialenel percorso evolutivo di un uomo o di un sistema che a partire da un pericolo, da una sofferenza, può riconoscere l’opportunità di cambiare (ibidem).
 
Il concetto di crisi fa riferimento, infatti, ad un termine coniato da Ippocrate, medico dell’antica Grecia, per indicare un punto decisivo di cambiamento che si presentava nella malattia e poteva determinare un decorso in senso favorevole o sfavorevole.
 
In ambito psicologico potremmo definire la crisi come uno stato di sofferenza così intenso da costituire un punto di svolta decisivo verso un miglioramento o un peggioramento (Sifneos 1982).
 
In psicoanalisi la crisi è rappresentata come la conseguenza di un evento interno o esterno che destabilizza l’equilibrio psichico ed emotivo ponendo di fronte alla necessità di un cambiamento.
 
La finalità di un processo di cura analitico è quello di produrre un cambiamento attraverso una trasformazione nel nostro mondo interno, che consenta di decostruire, per ricostruire che però presuppone la disponibilità a svelare e affrontare quanto si cela e agisce nelle parti più profonde di noi e da cui ci si difende perché temuto.
 
In sostanza si avvicinano e riconoscono gli aspetti disfunzionali sui quali si erano costituiti i sintomi di una patologia e si aprono nuovi spazi immaginativi, di pensiero, che aiutano ad individuare le risorse per avviare un cambiamento.
 
Quindi come sottolineo nei gruppi di psicoterapia è possibile trasformare una mancanza in un’opportunità. Quel che emerge rispetto alla crisi nei gruppi per l’elaborazione del disagio lavorativo è il vissuto di assenza di prospettive.
 
Qualcuno afferma: Che ce ne facciamo di una vita biologicamente più lunga ma senza PROSPETTIVE FUTURE?
 
Senza la forza dell’immaginazione, senza la capacità di sognare e progettare ci si sente finiti, in trappola, come un pesce fuor d’acqua.
Il cosiddetto attacco di panico, disturbo oggi molto diffuso e frequente tra coloro che si rivolgono ai servizi psicologici, consiste per l’appunto in una serie di sensazioni fisiche anche diverse (la sensazione di svenire, palpitazioni, senso di oppressione o dolore al petto, mancanza di respiro o respiro affannoso, tremore, senso di calore o viceversa sudori freddi ecc.) ma accomunate dalla paura di morire o di impazzire e dalla perdita del controllo. Dai racconti dei vissuti di questi pazienti spesso emerge la sensazione di essere in trappola, o in un vicolo buio senza vie d’uscita, senza prospettive oppure il vissuto di essere sopraffatto.
 
“E’ come avere la mente imprigionata in un’unica stanza, mentre tutto di noi afferma il bisogno di aprirsi su altri spazi…..”. E’ una delle metafore emerse.
 
L’accrescere delle sintomatologie depressive e dei quadri d’ansia nelle popolazioni occidentali sembra riflettere questo vissuto angoscioso di una situazione che apparentemente non lascia intravedere prospettive e in cui vengono frustrati i bisogni umani di sicurezza, protezione, appartenenza e autorealizzazione. Ci sente stranieri rispetto a se stessi e al proprio contesto. Dove cercare approdi rispetto ad una realtà disorientante, apparentemente senza punti di riferimento e in cui ci si sente perdutamente soli? E’ simile alla sensazione che si prova quando si arriva per la prima volta in un paese straniero.
 
E’ la consapevolezza di questa sensazione di “spaesamento” che ora ci accomuna a molti nostri colleghi immigrati, che lavorano e vivono a fianco a noi, e può permetterci di unirci nella ricerca solidale di uno spazio di pensiero, speranza e diritti comuni.

 
LAVORO E PSICOPATOLOGIA
 
Ad essere messo in discussione dalla crisi oggi, non è solo il mercato economico del lavoro ma il concetto stesso di lavoro.
 
Nell’ultimo trentennio, dagli anni 80 ad oggi, il lavoro ha subito rilevanti trasformazioni che hanno avuto importanti ricadute sulla vita e sulla salute mentale delle persone: sono crescenti le difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, per le nuove generazioni, oppure per coloro che vengono estromessi e che non riescono a rientrarvi, il cui numero è sempre maggiore; aumentano anche le difficoltà ad adattarsi alle forme di flessibilità richieste dall’attuale mercato del lavoro e la precarietà spinta a livelli sempre più estremi corrisponde spesso ad una maggiore dequalificazione, ritroviamo percorsi di formazione sempre più lunghi ai quali però molto spesso non corrispondono adeguati sbocchi professionali e ciò genera profonda frustrazione. L’organizzazione del lavoro si è trasformata e con essa il peso che il lavoro assume nell’impresa. Ma soprattutto è la stessa rilevanza sociale e culturale del lavoro ad essere mutata fino ad assumere talvolta una connotazione socialmente squalificante (A. Lucchetti, 2011) nel momento in cui nelle attuali teorie d’impresa il ruolo prioritario è affidato ai profitti e agli utili da corrispondere gli azionisti, piuttosto che al lavoro, alla produzione e alle persone che la realizzano.
 
Occorre pertanto ripensare al lavoro in un ottica di sviluppo sostenibile cominciando dall’articolo primo della Costituzione del nostro paese: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
I padri costituenti scelsero di mettere in primo piano il lavoro riconoscendo il posto rilevante che occupa nella vita e nella crescita delle persone e dei sistemi sociali.
 
In effetti la centralità del lavoro si declina in diverse dimensioni:
 
1 – rispetto all’identità, alla personalità e alla salute. Per dirla in breve: il lavoro non è mai neutro nei confronti della salute mentale. Esso può generare il peggio portando le persone fino alla malattia mentale (C.Dejours, 2013): alla depressione, alle varie forme dei disturbi d’ansia ma anche ad altre forme di patologia psichica e/o del corpo (pensate a tutti i corollari psicosomatici correlati allo stress) e persino al suicidio. Di lavoro si può anche morire, e questo è purtroppo sempre avvenuto, vedi gli incidenti sul lavoro per il non rispetto delle norme di salute e sicurezza e le malattie professionali gravi, come le patologie oncologiche derivanti dall’amianto. Ma oggi, e questa è la svolta storica, il lavoro può far insorgere un malessere così profondo da indurre al suicidio che in molti casi avviene sullo stesso luogo di lavoro, cosa del tutto nuova che si registra dagli anni 90 in poi. Se ne è parlato molto in Francia, con le pagine di cronaca sui suicidi alla Telecom France e alla Renault, ma avviene anche in altri paesi compreso il nostro.
 
Ma se il lavoro può generare il peggio, la malattia mentale o persino il suicidio, può altresì generare il meglio proprio perché esso occupa un posto centrale nella nostra vita mentale e può essere un mezzo per la realizzazione di sé (ibidem). Attraverso il lavoro infatti le persone possono accrescere la loro soggettività, la loro identità, sviluppare il loro potenziale migliorando la loro salute mentale.
 
2 – il secondo livello di centralità riguarda i rapporti di genere e quelli tra le generazioni: il lavoro è infatti alla base dei processi di emancipazione oppure di dominio nelle relazioni tra uomini e donne e in quelle generazionali tra padri e figli.
 
Il lavoro consente infatti di realizzare i processi di autonomia e di autodeterminazione delle donne e dei giovani.
 
Inoltre il lavoro ha un’influenza anche sulle relazioni affettive e sulla vita sessuale: quando si hanno difficoltà lavorative ciò si riflette nel rapporto di coppia, nella vita sessuale e nelle relazioni famigliari. Una persona preoccupata per il lavoro diventa irritabile, non dorme la notte, è stanco e questo si riflette negativamente nei rapporti con il proprio partner e con i figli.
 
3- la terza dimensione della centralità del lavoro è quella sociale e politica.
 
Il lavoro non è solo un rapporto individuale con un compito ma presuppone la capacità di cooperare e lavorare insieme, pertanto ci costringe a cercare le vie per una cooperazione orizzontale, con i colleghi, verticale, con i vertici aziendali, e trasversale, con i clienti. Perché si lavora sempre per qualcuno e con qualcuno.
 
La cooperazione non è un dono di natura e presuppone la capacità di costruire delle regole comuni, di ascoltare, di comunicare, di confrontarsi esattamente come avviene per qualsiasi forma di democrazia. Quindi quando partecipiamo alla cooperazione attraverso il lavoro, impariamo l’esercizio stesso della democrazia. Pertanto non vi è neutralità del lavoro nemmeno rispetto alla democrazia: il lavoro può generare la democrazia oppure può distruggerla, al pari di quanto avviene per la salute o la malattia mentale (Dejours, op. cit.), il lavoro appare centrale anche rispetto alla conoscenza: per produrre conoscenza bisogna lavorare, pensare, studiare, riflettere, immaginare e la conoscenza è alla base di qualsiasi processo di sviluppo e crescita.
 
 Tutto questo per dire che c’è un legame profondo di causa ed effetto tra le trasformazioni del lavoro, la crisi e l’attuale psicopatologia, che ci spinge ad esplorare la sofferenza umana collegata al lavoro e a ripensare il concetto stesso di lavoro di fronte allo scempio e alle conseguenze catastrofiche che si sono prodotti.
 
A generare sofferenza oggi sono soprattutto:
  • La perdita del lavoro
  • L’estrema precarizzazione delle forme del lavoro
  • Le relazioni: si assiste, infatti, ad un aumento dell’aggressività e della conflittualità distruttiva e a forme di darwinismo organizzativo e socialein cui sovente sono i soggetti portatori di qualche forma di fragilità o diversità a divenire oggetto di persecuzione o discriminazione e ad essere espulsi
( vedi per es. cat. Protette, donne sole o al rientro dalla maternità ecc.).
 
Ø    La perdita dei legami solidali cui corrisponde un aumento dell’individualismo e il sentimento di solitudine: è la solitudine il sentimento più diffuso generato dalle trasformazioni del lavoro.
  • È bene tenere presente anche l’importanza del riconoscimento del lavoro: la naturale fatica che si prova nello svolgimento di un’attività è compensata dal riconoscimento che abbiamo fatto un buon lavoro, se questo viene a mancare o peggio se il nostro lavoro viene denigrato e le nostre prestazioni sono valutate in modo umiliante questo nel tempo genera sofferenza e influisce negativamente sulla nostra autostima.
Il rapporto dell’Osservatorio Salute Nazionale coordinato dall’Università la Sapienza di Roma reso pubblico nell’aprile 2012 riporta un aumento del consumo di psicofarmaci, in modo particolare antidepressivi e ansioliticiquadruplicato negli untimi 10 anni collegando il fenomeno all’aumento dei carichi psicologici legati all’incertezza e alla caduta delle sicurezze che la recessione economica comporta. Anche il Sole 24 ore in un articolo del 27 aprile 2012 collega l’aumento del ricorso agli psicofarmaci alle difficoltà lavorative legate al precariato sempre più spinto e alla disoccupazione.Tale aumento sembra essere in linea con le statistiche europee che sottolineano inoltre un incremento del 10% delle domande di sostegno psicologico negli ultimi cinque anni.
 
Sempre più persone, infatti, chiedono aiuto per orientarsi ed affrontare un processo di adattamento a situazioni lavorative che talvolta appaiono intollerabili, ed evitare di essere espulsi dal mondo del lavoro e cadere in situazioni di marginalità sociale.
 
Da un’indagine ISTAT sul disagio nelle relazioni di lavoro, pubblicata nel settembre 2010 emerge che dei 29milioni 128mila lavoratori intervistati, di età compresa tra i 15 e i 70 anni, il 9% (2milioni 633mila) ha sofferto, nel corso della vita, vessazioni o demansionamento o privazione dei compiti. Il 6,7 per cento ha sperimentato una tale situazione negli ultimi tre anni e il 4,3 per cento negli ultimi 12 mesi. A subire di più sono le donne, con il 9,9 per cento nel corso della vita. Mentre Un numero maggiore di lavoratori (7milioni, 948mila) ha, invece, vissuto situazioni di disagio caratterizzate da frequenza e durata contenuta. Preme, tut-tavia, sottolineare che una parte di questi lavoratori (198mila) si possono definire “altamente a rischio”, dal momento che sono stati oggetto di comportamenti vessatori più volte al mese, ma per una durata inferiore a sei mesi.  
Sembra che la crisi abbia messo in luce le espressioni peggiori dell’attuale sistema capitalistico neoliberale liberandone le pulsioni più distruttive: in modo particolare per quanto concerne i “processi di deumanizzazione” e di “banalizzazione del male” (Arendt, 1963) che si compiono nei contesti di lavoro, rispetto ai quali spesso partecipiamo senza neppure rendercene conto.
 
Tali processi avvengono ogniqualvolta non è riconosciuta o è negata l’umanità dell’altro, in questo caso delle lavoratrici e dei lavoratori, che vengono così ridotti a mero strumento, merce da usare e poi gettare, al pari delle altre risorse aziendali, costringendoli ad una condizione di asservimento (lavoro servile), allo stato di non-persona. Trovo che dietro al termine “risorse umane”, possiamo identificare una delle tante perversioni, di questo sistema, vale a dire la costruzione mentale di una falsa realtà, in cui attraverso complessi meccanismi di difesa psichici è possibile far coesistere aspetti anche molto contraddittori e opposti.

La radice linguistica del termine “perversione” rimanda al senso di allontanamento dalla verità, per–vertere equivale a guastare l’ordine delle cose, mettere sotto sopra, capovolgere, mentre una seconda definizione ne sottolinea invece l’aspetto ossessivo nell’insistere in ciò che è ingiusto (Nielsen, 2004).
 
Pensate per esempio a tutte le filosofie aziendali che fanno coincidere la mission e il successo d’impresa con l’autorealizzazione e la felicità dei dipendenti per promuovere motivazione e fedeltà, formulando richieste aziendali sempre più totalizzanti in termini di impegno e appartenenza. Queste filosofie continuano a coesistere parallelamente alla disinvoltura con cui queste stesse aziende ogni giorno si sbarazzano di questi dipendenti fedeli e motivati, senza preoccuparsi non solo per la loro felicità, ma neppure della loro possibilità di sopravvivenza, determinando il crollo di tutti quei parametri su cui queste persone avevano investito nel costruire la loro identità ed esistenza. E’ il “saper essere” oggi, piuttosto che il “saper fare” (M. Marzano, 2009), ad essere messo in discussione e che può spiegare il suicido come espressione disperata di un crollo narcisistico o semplicemente come unico modo di operare una scelta in situazioni che appaiono senza via di uscita.
 
Ma la perversione più macroscopica consiste nella presentazione di una visione del mondo rovesciato in cui l’uomo diventa un mezzo e non un fine.
 
 E’ un mondo in cui il bene diventa male, i veri valori dis-valori, la ricchezza povertà, il lavoro alienazione e ogni verità viene trasformata perversamente nel suo contrario paralizzando ogni atto di modificazione (Nielsen, 2004).
 
In un gruppo un paziente riferisce che un sogno ricorrente è quello di essere appeso a testa in giù e di svolgere in questo modo tutte le sue attività quotidiane; solo la sera rientrando a casa dal lavoro può riprende la giusta posizione e accorgersi dell’enorme fatica.
 
Non ho potuto fare a meno di pensare come questo sogno possa ben rappresentare la dimensione perversa in cui siamo costretti a vivere e le torsioni dell’identità a cui siamo sottoposti ogni giorno.
 
Un gruppo di lavoro sul disagio con gli RLS ha rappresentato il momento della vestizione, quando indossi il camice verde, come il passaggio dalla tua personalità ad uno stato impersonale o di falso sé, a cui sei costretto entrando nell’ambiente di lavoro. Quindi per resistere non resta che la dissociazione mente-corpo (il tuo corpo è presente ma la mente la porti da un’altra parte) oppure la rabbia per non sentirti morto dentro. Ciò però comporta alienazione e un profondo stato di sofferenza.

 
MOBBING E IL CIRCOLO PERVERSO PAURA, AGGRESSIVITÀ, CONFLITTO DISTRUTTIVO
 
E qui arriviamo alla terza parola chiave del convegno: il mobbing, per eccellenza appare come la rappresentazione del lavoro perverso in cui si riscontra la costruzione mentale di una falsa realtà dove i fini giustificano i mezzi e viene negata l’identità del lavoratore che viene così ridotto “meno di un uomo”, a “non persona” (Beck, 2008), o a sub-umano, in modo da poterlo distruggere senza incorrere nei sensi di colpa e di responsabilità.
 
Il mobbing è infatti una forma di maltrattamento sul lavoro, di molestia soprattutto psicologica (purtroppo oggi giorno non solo) perpetuata attraverso una serie di azioni ostili, attuate in modo sistematico e prolungato nel tempo, con intenti persecutori e finalità espulsive. Lo scopo finale è infatti costringere la vittima in una posizione di costante inferiorità che ne determina l’annullamento e/o l’esclusione per indurla alle dimissioni.
 
Ma nei contesti odierni non è solo il mobbing personalizzato o individuale ad apparire in primo piano, bensì una dimensione sottostante che potremmo definire come un mobbing strutturale, dove è l’intero sistema delle relazioni aziendali ad apparire costruito sulla coercizione, sul ricatto, sulla vessazione, ricorrendo talvolta a meccanismi di controllo che ricordano quelli delle istituzioni totali quali il carcere, il manicomio, il campo di concentramento.
 
Sembra che in simili contesti le relazioni si sviluppino attraverso il binomio che contrappone “inclusione versus esclusione” e sul conseguente ricatto implicito basato sulla paura di perdere l’occupazione che richiama i fantasmi della deriva sociale6. Tutto ciò genera conflitto.
 
 Il conflitto non è di per sé negativo, anzi appare spesso costruttivo quando è inteso come dialettica che consente il confronto e la crescita presupponendo l’ascolto e il riconoscimento dell’altro, mentre il mobbing l’epilogo di un conflitto distruttivo in cui si attacca per distruggere. Alla base del mobbing strutturale il tentativo di prevenire qualsiasi forma di dissenso temuto e negato, che invece si realizza con conseguenze drammatiche, quando a turno l’aggressività si focalizza su una vittima cristallizzata che diventa il capro espiatorio di un simile clima organizzativo. 
La funzione del capro espiatorio è, infatti, quella di catalizzare su di sé tutte le colpe del malessere collettivo e l’aggressività del gruppo7 liberandolo dalle ansie e dalle paure che lo attraversano, ma soprattutto dalla sua distruttività (Gerli e Curi Novelli, 2012).
 
Pensate per esempio alle dinamiche dei gruppi razzisti, che funzionano attraverso la proiezione delle proprie idee persecutorie su un nemico esterno da combattere su cui spostano l’aggressività interna (lo straniero che ruba il posto di lavoro per es.), oppure a quanto descritto da A. Manzoni nella “Storia della colonna infame” (1842) in cui narra la tragica sorte di Giangiacomo Mora barbaramente ucciso a Milano nel 1630 perché accusato di essere un untore nel periodo della peste. Liberarsi dei possibili untori rassicura il gruppo dalla paura del contagio e della morte (ibidem).
 
Ora un clima che potremmo definire di “guerra economica” contribuisce a generare sul fronte del lavoro forti sentimenti di ansia, paura e aggressività.
 
Nei gruppi specializzati per l’elaborazione del disagio sul lavoro emergono molte metafore di guerra utilizzate per descrivere i vissuti e le emozioni che hanno a che fare con situazioni che appaiono come vere e proprie situazioni di guerra sul lavoro.
 
Anche l’invidia svolge un ruolo importante nel generare situazione di conflitto distruttivo, soprattutto in contesti altamente competitivi.
 
Il mobbing, i soprusi, le discriminazioni sul lavoro sono sempre esistiti ma un tempo a differenza di oggi si poteva contare maggiormente sulla solidarietà e il supporto del gruppo dei colleghi. Erano le relazioni a fare la differenza nella prevenzione e tutela della salute mentale, che non dipende solo dall’individuo ma anche dall’aiuto collettivo che si riceve nella forma della solidarietà (Dejours, 2011).
 
Sempre attraverso i gruppi che conduco emerge che oltre alla ferita per l’ingiustizia subita e al trauma dell’espulsione bisogna oggi elaborare il tradimento e l’abbandono subito da parte dei colleghi, che talvolta per paura, talvolta per indifferenza non intervengono, diventando “testimoni complici”.
 
Quel che si evidenzia negli attuali contesti di lavoro è la perdita del limite tra ciò che è lecito o illecito, tra il bene e il male che spesso viene compiuto in modo banale, in assenza di pensiero, senza riflettere sulle conseguenze, nascondendosi dietro le procedure, i ruoli, concentrati sull’esecuzione dei compiti, eludendo il proprio senso di responsabilità. Inoltre, chi come me opera sul campo, può rilevare come all’aumento dei soprusi e della sofferenza corrisponde un proporzionale aumento dell’indifferenza e della tolleranza verso l’ingiustizia, di fronte alla quale sembrano attivarsi meccanismi psichici difensivi, per lo più inconsci, sia individuali, sia collettivi nel tentativo di proteggersi dall’impatto del crescente disagio, il proprio e quello altrui. È come se ci fosse un processo di naturalizzazione della sofferenza che fa perdere il confine tra normalità e patologia.

Ma perché tanta aggressività nei contesti di lavoro?
 
Credo che ciò richieda un’ulteriore riflessione.
 
Innanzitutto è bene tenere presente che i processi di disumanizzazione agiscono ad un livello di reciprocità (Meotti, 2006), in cui oltre all’umanità dell’altro (l’oggetto) si distrugge anche l’umanità del soggetto, perdendo la capacità di contenere e moderare l’aggressività (Brenman, 2006) e la possibilità di costruire una vera relazione, che può fondarsi solo sull’identificazione e la capacità empatica.
 
Vi sono inoltre studi psicoanalitici sulle dinamiche di gruppo che spiegano come la paura e l’aggressività si possano alimentare e incrementare reciprocamente determinando una sorta di circolo vizioso in crescendo. Questi studi applicati alle organizzazioni spiegano come di fronte a cambiamenti o ad eventi sentiti minacciosi, destabilizzanti l’equilibrio, lo status quo dell’istituzione o del gruppo di lavoro, si possono determinare sentimenti di ansia e paura tali da innescare delle reazioni di difesa inconscia quali l’attacco e la fuga (fuggire un pericolo, attaccare un nemico) che il gruppo è pronto a fare indistintamente). Si generano in questo modo dei vissuti così persecutori da determinare un clima conflittuale e reazioni anche molto aggressive se non c’è un management in grado di riconoscere e contenere tali movimenti emotivi. L’analisi di queste dinamiche sono molto utili per comprendere il fenomeno del mobbing, ma anche per capire cosa succede oggi in molti contesti di lavoro, dove l’incertezza della crisi e le pressioni del mercato scatenano ansie e paure profonde e irrazionali che determinano reazioni estremamente aggressive.
 
Per es. Sempre attraverso il gruppo di lavoro con gli RLS di un azienda della grande distribuzione organizzata è emerso come si è sviluppato un clima di forte tensione, della serie “tutti contro tutti”: giovani contro senior; par-time contro full-time; add. Vendita contro impiegati; precari contro garantiti, ecc.
 
Le relazioni nel contesto analizzato appaiono fondate sul ricatto che si realizza attraverso un complesso sistema di premi-punizioni (che vanno dalla trasformazione del contratto precario – part-time – full time, alla gestione degli straordinari, ai turni orari di lavoro; gestione permessi; fino al posto nel parcheggio e il saluto del capo) che è stato gradualmente interiorizzato da tutti i lavoratori e le lavoratrici ed ha sostituito a qualsiasi forma di contratto confondendo i diritti con i premi e le norme con le punizioni e spostando il conflitto da un livello contrattuale ad un livello psicologico.
 
Un simile ambiente è il terreno ideale per la nascita di situazioni di mobbing.
 
In contesti altamente competitivi, caratterizzati da strategie aziendali basate sul divide et impera e di conseguenza sull’individualismo e la paura (della serie: mors tua, vita mea), si può scatenare infatti una forte aggressività che talvolta viene concentrata e diretta verso uno o più soggetti identificati come capri espiatori.
 
Tuttavia come emerge in una seduta di un gruppo per l’elaborazione del disagio lavorativo, “così si finisce per perdere tutti”.
 
Ora se consideriamo che la maggior parte dei contesti organizzativi sono impregnati da culture che esaltano la performance e in cui la fragilità umana è altamente temuta e bandita, tanto quanto la diversità e il dissenso, non stupisce che a farne le spese siano proprio coloro che mostrano qualche aspetto di fragilità o diversità, oppure che manifestano qualche forma di dissenso. Tuttavia si tratta di dinamiche che non risparmiano nessuno, neppure coloro che precedentemente hanno svolto il ruolo di aggressori.

Ampiamente dimostrata, infatti, la reversibilità dei ruoli vittima – carnefice

Da una prospettiva psicopatologica la crisi ha rivelato dunque in tutta la sua drammaticità la dimensione del trauma9 collegato alla violenza dei processi di deumanizzazione.
 
Ma come possono compiersi tali processi di deumanizzazione? Essi si realizzano soprattutto attraverso i meccanismi difensivi della scissione che, per esempio, permettono di dividere il proprio mondo in un mondo di cose morte e uno di cose vive (Meotti, 2006), oppure in un mondo prossimale (o intersoggetti-vo) e uno distale (Dejours, 1998). Nel primo si possono provare degli affetti e un certo grado di empatia, in quanto popolato dalle persone immediatamente vicine al soggetto (la famiglia, gli amici ecc.), mentre nel se-condo tutto esiste ad uno stato indifferenziato, pertanto uomini e cose assumono la stessa importan-za2 e non esiste alcuna possibilità di identificarsi con gli altri. Assistiamo in questo caso a una scissione ver-ticale della personalità, che, attraverso l’assunzione di una “posizione perversa”, consente di attuare un restringimento della coscienza intersoggettiva” (ibidem), permettendo di attuare quello che la Arendt (1963) definisce il “male banale”, attuato cioè senza consapevolezza, in assenza di pensiero, dun-que senza la percezione della propria responsabilità.
 
E’ la modalità psichica che consentiva ad Eichmann e ad altri zelanti burocrati nazisti di mandare alla morte migliaia di persone senza percepire la responsabilità delle proprie azioni. La stessa che permette a molti manager di esercitare pressioni di ogni tipo sui sottoposti e poi la sera di tornare ad essere padri affettuosi.
 
Tuttavia Dejours ricorda che, al pari di quanto avveniva per la macchina organizzativa nazista, l’ingranaggio siamo noi, ed esso può funzionare solo sul nostro consenso attivo o passivo. Senza il silenzio assenso di milioni di Tedeschi la macchina nazista non avrebbe potuto funzionare.
 
Il ruolo del gruppo dei colleghi, pertanto, come si può evincere è fondamentale, perché, come afferma Bion (1961) nessuno può stare in gruppo senza fare niente, la sola presenza produce delle conseguenze, e sul fronte del mobbing questo appare fondamentale, perché se il gruppo dei colleghi si schiera a favore della vittima la persecuzione si può arrestare, mentre se si assiste anche senza fare nulla si assume il ruolo di “testimoni complici”.
 
Ma quando parlo di gruppo ne parlo anche nel senso più esteso di contesto organizzativo dove i vertici non possono esimersi dal ruolo di responsabilità che presuppone la prevenzione e la gestione di situazioni di conflittualità e disagio, così come la tutela della salute.  
Anzi è fondamentale che chi oggi ricopre importanti funzioni manageriali abbia anche buone capacità relazionali e sia formato alla gestione delle relazioni e del conflitto, in modo da poter contenere e gestire le ansie e le emozioni che si generano nei contesti organizzativi, soprattutto in momenti di crisi.
 
A questo punto sorge spontanea una domanda: il mobbing e il disagio lavorativo nelle sue varie forme sono una patologia della persona o del gruppo?
 
Alla luce di quanto finora illustrato credo possiamo affermare con certezza che il soggetto portatore di disagio rappresenta solo il sintomo di una patologia del gruppo di lavoro, dell’organizzazione, della società, segnalando le fragilità di un sistema in crisi e pertanto come tale va affrontato.
 

CONCLUSIONI
 
Dunque di fronte a tanta sofferenza che la crisi sembra aver rivelato mi sento di dire che spetta a noi decidere se lasciare che tutto degeneri nel modo peggiore, oppure cogliere l’opportunità di una trasformazione in meglio, trovando il coraggio di affrontare la verità.
 
Abbiamo la possibilità e il compito di contribuire alla nascita di un pensiero critico in grado di sviluppare una nuova cultura intorno al tema della sofferenza degli esseri umani nei contesti economici con l’obiettivo di contribuire alla riumanizzazione del lavoro
 
E credo che in tal senso sia necessario ripartire da noi stessi rimettendoci in contatto con i punti di riferimento del proprio mondo interno: il senso di umanità, l’affettività profonda (capacità di amare e rispettare l’altro), l’etica e i desideri.
 
Come ho potuto imparare dai miei gruppi per l’elaborazione del disagio lavorativo e di psicoterapia: per superare la crisi occorre allargare gli spazi mentali ed emotivi; creare nuove stanze dentro di noi per allargare gli spazi anche attorno a noi (relazioni, lavoro, creatività e arte ecc.) e, nonostante il timore, ad ogni spazio buio che viene affrontato corrisponde l’apertura di un varco, una finestra, una porta che ci consente di illuminare spazi sconosciuti e liberare nuove risorse.
 
Bisogna però anche interrogarsi sulle proprie modalità di risposta alla sofferenza, sulla nostra sensibilità e la capacità di identificazione:
 
sentiamo ancora la spinta vitale verso la relazione umana con l’altro? siamo ancora in grado di immaginarci come un insieme e rivolgerci l’un l’altro con il pronome plurale “noi”? Oppure ci difendiamo distogliendo lo sguardo? Ma soprattutto chiudendo la mente?
La terapeuticità del gruppo consiste nel ricreare un senso di inclusione per chi aveva subito il trauma dell’esclusione e insieme risperimentare, in un setting che protegge, le proprie capacità di relazione, di vivere insieme.
 
 Quel che insieme attraverso i gruppi abbiamo appreso è che oggi dobbiamo rivedere anche la nostra nozione di altruismo, che non può più apparire come opposta all’egoismo e come qualcosa di discrezionale che pos-siamo rivolgere agli altri, ma bensì come qualcosa di necessario per il nostro benessere, che potremmo defi-nire come “EGOALTRUISMO” (F. Gambaro, 2013)10 perché la globalizzazione e la crisi hanno messo in evidenza l’impossibilità di stare bene in contesti in cui ci sono molte altre persone che stanno male.  

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