Alimentazione: tra scienza e spettacolo

Autore: Arianna Calabrese

Alimentazione: tra scienza e spettacolo In principio furono i blog. Se ci pensiamo, prima dei blog di cucina, la cura che si rivolgeva non tanto alla presentazione dei piatti, quanto alla riproduzione di immagini e foto sui libri, aveva lo scopo di illustrarci il risultato atteso più che di invogliarci a mangiare. Sono stati proprio i blog prima, e Instagram poi, a esasperare l’attenzione nei confronti dell’aspetto del cibo. Ora si parla di cibo instagrammabile, si usa l’hashtag #foodporn, i corsi di fotografia includono moduli sulla food photography, si studiano gli effetti dei social media sulle abitudini alimentari della popolazione.

Inoltre è nata, o meglio, si è strutturata la figura del foodie. Tale termine, coniato nel 1984 da Levy e Barr e la cui traduzione letterale è “buongustaio”, rappresenta l’amatore che sa cucinare, ha buone competenze gastronomiche, considera i pasti non solo un’esigenza ma un’esperienza da assaporare appieno e condividere, ma non è né uno chef né un critico.

Oggi i foodies sono bloggers, influencers, insegnanti, divulgatori, presentatori tv.

Una sorte analoga a quella dei libri hanno attraversato le trasmissioni di cucina: in passato occupavano uno spazio di una decina di minuti all’interno di programmi contenitore, adesso sono veri e propri show in onda in prima serata. 

In buona sostanza, se prima libri e programmi tv di cucina svolgevano un servizio, un po’ come il telegiornale, rendendo fruibili nuove ricette da sperimentare, attualmente rappresentano spettacoli in piena regola godibili anche dal vivo, si pensi ad esempio agli show cooking o alle materclass che gli chef organizzano in occasione di fiere ed eventi o del lancio dei loro libri di cucina. Si è passati da un valore informativo alla rappresentazione di uno stile di vita curato e patinato cui ambire, complice anche l’intuizione di alcuni dirigenti di reti televisive, che hanno visto nel cibo e in un nuovo modo di raccontarlo l’opportunità di veicolare i consumi.

L’avvento di un modo di comunicare che sfrutta prevalentemente il canale visivo ha influito su questa progressiva trasformazione della modalità di narrare il cibo.

Possiamo però ipotizzare che abbia trovato terreno fertile, considerato il modo in cui ci procacciamo il nutrimento. L’uomo, per giudicare la commestibilità di una sostanza, si serve sì dell’olfatto ma anche, e in maniera significativa rispetto ad altre specie, della vista.

Viene descritto come microsmatico, ovvero come un animale dall’odorato poco sviluppato. Da un punto di vista anatomico, il volume cerebrale deputato nell’Homo sapiens all’elaborazione dei messaggi olfattivi risulta modesto se confrontato con quello riservato a vista e udito o con altre specie. Non è detto che a questo corrisponda necessariamente una ridotta funzionalità, sebbene sia evidente come alcuni animali, il cane tra tutti, dispongano di competenze olfattive importanti e su esse facciano molto affidamento.

Studi comparativi sul genoma dei primati hanno dimostrato come la percentuale di pseudogeni olfattivi, ossia di geni che non si esprimono, aumenti dalle proscimmie ai primati arrivando a rappresentare il 50% dei geni olfattivi nell’uomo. Si è inoltre visto come tale percentuale sia inversamente proporzionale all’acquisizione di una vista pienamente tricromatica. Nonostante siano necessarie ulteriori ricerche, utili anche a fare luce su alcune incongruenze tra i dati rilevati, si può ipotizzare che per queste specie la selezione degli alimenti, prima effettuata tramite l’olfatto, sia diventata possibile e anche più efficace in base ai colori (es.: discriminazione di frutti maturi e acerbi, etc.) e che siano rimasti attivi, in ognuna di esse, i geni con un valore adattativo, fondamentali cioè per garantire la sopravvivenza.

Non è ancora chiaro come mai questo processo non sia uniforme per tutte le popolazioni umane.

Si può a questo punto affermare che, insieme all’olfatto, la vista rivesta un ruolo primario nella selezione del cibo e che sia proprio quest’ultimo senso che foto e programmi televisivi di cucina stimolano. Il gusto interviene in una fase successiva rispetto a quella della selezione per mantenere o estinguere il comportamento (se il cibo selezionato ha un buon sapore continuerò a mangiarlo, altrimenti no).

Nella descrizione appena proposta manca un tassello importante: mangiare procura piacere.

Ciò accade perché quando mangiamo si attiva il circuito cerebrale della ricompensa che a sua volta stimola la prosecuzione/ripetizione dell’azione e la ricerca del piacere stesso (è un circuito coinvolto anche nelle dipendenze) sedimentando memorie affettive legate al cibo. Anche questo meccanismo ha un valore adattativo, poiché induce l’uomo a ingerire la quantità e la qualità di alimenti atti a garantirne la sopravvivenza e dunque a preservare la specie.
Scorrere la bacheca di Instagram o guardare show di cucina procurerà piacere perché il cibo è intrinsecamente legato ad esso. 
Social network e televisione potranno sfruttare tale legame per promuovere stili di vita e direzionare i consumi. 

Alcuni studi si sono occupati di indagare il legame tra social media, acquisti e abitudini alimentari di adolescenti e giovani adulti, maggiori fruitori di social network.

Da essi è emerso come tali strumenti riescano a influenzare il mercato attraverso campagne pubblicitarie che fanno largo uso di immagini (vista) e hanno una forte valenza emozionale (piacere, ricompensa, ripetizione) piuttosto che informare circa la qualità dei prodotti.

La potenza emotiva del messaggio è in genere evocata dalla proposta di uno stile di vita a cui ambire. Tale strategia è utilizzata anche da personaggi che curano canali social volti a promuovere stili di vita salutari, supportando coloro che decidono di ingaggiarsi nel miglioramento delle proprie abitudini.

Rispetto all’alimentazione, la possibilità di ricevere sostegno da una comunità che condivide obiettivi analoghi appare fondamentale nel perseguimento degli stessi e potrebbe rappresentare una risorsa da estendere anche a contesti clinici e di cura.

Il consumo di cibo sano promosso da questi canali tuttavia, quando diviene ossessivo e genera preoccupazioni costanti circa la salubrità degli alimenti, può portare all’ortoressia nervosa, descritta da Bratman come un’ossessione patologica per cibi salutari e naturali. In effetti, l’uso dei social media è associato anche a sviluppo e mantenimento di disturbi alimentari, poiché da un lato pone un’attenzione eccessiva sul peso e dall’altro rischia di promuovere comportamenti alimentari disfunzionali.

Riassumendo, si può dire che il rapporto dell’uomo con il cibo è mediato da un complesso sistema che gli ha garantito la sopravvivenza fino a oggi e che coinvolge olfatto, vista e circuito della ricompensa.

I mezzi di comunicazione di massa e i social media hanno intuito questo legame cibo-piacere-consumo e se ne sono serviti per direzionare gli acquisti, facendo leva sulla proposta di stili di vita da sogno da perseguire. Sarà importante cercare di sfruttare la consapevolezza del funzionamento di questi meccanismi per promuovere abitudini alimentari salutari e per minimizzarne gli effetti su individui vulnerabili rispetto allo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare. 

Bibliografia
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